Articoli 2017

Quattro esercizi per combattere il mal di schiena

Per prevenire il mal di schiena, è fondamentale prestare attenzione alla postura che assumiamo quando siamo seduti alla scrivania, soprattutto mentre lavoriamo al computer.
È importante non sbilanciare mai il corpo in avanti o di lato, tenere la schiena dritta in modo da formare con il bacino un angolo retto, appoggiarsi bene allo schienale, rilassare le spalle ed evitate di incassare la testa.
E soprattutto: mai ingobbirsi!

Ma se questi sono i consigli principali, non dimentichiamo che anche un po’ di esercizio fisico può aiutare a sciogliere i muscoli della schiena, del collo e delle gambe, facendo però attenzione a scegliere un programma di allenamento che sia consono alla propria forza e forma fisica.
Esagerare, anche in questo caso, non sarà di certo salutare.

Se il tempo per l’attività fisica è misurabile con il contagocce, sfruttate le ore che avete disponibili per mettere in pratica alcuni esercizi utili per combattere il mal di schiena: pochi, semplici… ma efficaci! ;)

Esercizio 1
Il primo esercizio si rivela molto utile per alleviare i dolori che colpiscono la zona cervicale. Da posizione seduta, distendete un braccio verso il basso e afferrate la sedia. L’altra mano, invece, portatela sull’orecchio opposto a essa, passando sopra la testa. A questo punto, con l’aiuto del braccio, piegate in modo molto dolce il capo verso la spalla. Basterà tenere questa posizione per alcuni secondi, e ripetere l’esercizio da entrambi i lati: così è possibile prevenire eventuali dolori muscolari dati da una postura scorretta.

Esercizio 2
Nel momento in cui vi concedete una pausa davanti alla macchinetta del caffè, approfittatene per mettere in pratica un esercizio utile per scongiurare dolori lombari e sacrali.
Dalla posizione eretta, sollevate i talloni e, successivamente, mentre i talloni tornano a terra, sollevate anche le punte.
Ricordate di accompagnare il movimento portando ritmicamente il busto avanti e indietro e, se possibile, poggiate le mani su una superficie piana, per svolgere il tutto in perfetta sicurezza.
Senza accelerare i movimenti, eseguite l’esercizio per 15-20 volte: sarà molto utile anche per migliorare la circolazione sanguigna, che può influire positivamente nel mantenimento del benessere dell’apparato muscolo-scheletrico.

Esercizio 3
Esistono poi esercizi molto semplici che potrebbero sembrare a tratti inutili ma che, in realtà, apportano numerosi benefici alla salute generale della schiena e della colonna vertebrale.
Per rafforzare gli addominali, così come i muscoli lombari, appoggiate il palmo delle mani sul tavolo della scrivania, esercitando una leggera pressione verso il basso per circa 10 secondi.
Ripetete l’esercizio 4-5 volte: noterete i benefici, non dubitate! :D

Esercizio 4
Infine, i più diligenti potranno dedicarsi a un ultimo esercizio, comodamente seduti sulla sedia. Divaricate le gambe e portate le braccia dietro la schiena, premendo le mani nell’area lombare: a questo punto, “aprite le spalle” e “chiudete le scapole”.
Notate un rilassamento muscolare?

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Alimentazione e carie: come comportarsi?

La dieta e le abitudini alimentari influenzano direttamente la salute orale.

Possiamo infatti distinguere fra alimenti:
-CARIOGENI (alto rischio di carie): cibi acidi (compresi agrumi e bevande dolci), zuccheri semplici o contenuti in alimenti o nelle bevande (zucchero, miele, fruttosio, frutta candita, cereali, pane, dolci).
-CARIOSTATICI (neutri): la maggior parte delle verdure (cotte e morbide), cibi proteici (carne e pesce) e grassi (formaggi freschi e uova).
-ANTICARIOGENI (contrastano la formazione della carie): frutta fresca non acida, frutta secca (mandorle, noci…), verdure fibrose e crude, formaggi stagionati e latte, acqua e bevande alcaline e senza zuccheri, cibi di consistenza elevata, da masticare, fibrosi, poco adesivi e alcalini.

Ecco quindi qualche consiglio:

1. Non consumare alimenti cariogeni a fine pasto o in occasione degli spuntini, soprattutto se si è fuori casa e non è possibile lavarsi subito i denti.

2. Tuttavia, gli alimenti cariogeni non devono essere esclusi dalla dieta perché spesso contengono nutrienti preziosi (es. Vitamina C), ma devono essere preferibilmente consumati in associazione a cibi anticariogeni o cariostatici.

3. Il latte e i suoi derivati, soprattutto i formaggi stagionati, sono un toccasana per i denti.

4. L’acqua è vitale per la salute dei denti e della bocca: bere un bicchiere d’acqua dopo aver mangiato è una buona pratica di igiene orale.

5. La saliva ha un effetto respingente ed aiuta a rimuovere i detriti dalla bocca. È consigliato, quindi, masticare alimenti duri poiché aumentano il flusso salivare.
Invece i cibi morbidi e appiccicosi aderiscono più facilmente ai denti, favorendo l’accumulo di placca batterica, che può portare allo sviluppo della carie.

Le cure naturali per l’asma

L’asma bronchiale è una patologia infiammatoria cronica delle vie aeree che provoca una serie di sintomi tra i quali quello principale è il broncospasmo, ovvero un’improvvisa contrazione delle fibre muscolari lisce della parete bronchiale. Il broncospasmo si associa ad un’ipersecrezione di muco denso provocando una difficoltà nel passaggio dell’aria nelle fasi di espirazione. L’andamento di questa patologia è sempre cronico, anche se i fenomeni clinici possono manifestarsi improvvisamente in alternanza con lunghi periodi di remissione. L’esordio della malattia può avvenire a qualsiasi età in relazione alle cause, anche se solitamente avviene nei primi 20 anni di vita. Tuttavia, sempre più frequentemente vengono segnalati casi di insorgenza tardiva, in età adulta o geriatrica: in questi quadri, l’asma risulta più severa e meno facilmente reversibile rispetto alla comparsa della patologia nelle fasce d’età più giovani. I sintomi sono chiari ed evidenti: durante la crisi, definita accesso asmatico, il soggetto è prostrato e sofferente, manifesta un senso di costrizione toracica con dispnea, “fame d’aria”, tosse stizzosa e non produttiva. A volte, nella fase terminale dell’attacco, avviene l’espettorazione di abbondante secreto mucoso e denso, che procura un sensibile sollievo respiratorio. In alcuni casi, la tosse rappresenta la principale, se non l’unica, manifestazione clinica dell’asma. Il soggetto è angosciato, il colorito è terreo e la cute è bagnata da sudore freddo; qualsiasi movimento, anche il solo parlare, costa grande fatica e l’asmatico cerca di concentrare tutte le sue energie nel tentativo di respirare. La crisi è accompagnata da fischi, sibili e battito cardiaco accelerato (tachicardia). In tutte le sue diverse manifestazioni, l’asma si accompagna sempre ad un’iperattività bronchiale che caratterizza tutta la vita del soggetto. 

La patologia asmatica è causata da molteplici fattori (genetici, allergici, emozionali, professionali, farmacologici) e viene distinta in due forme: l’asma allergica (atopica o estrinseca), che si manifesta generalmente già nell’infanzia e si associa spesso ad altre patologie allergiche come le riniti, gli eczemi e l’orticaria.  In questa forma l’andamento è stagionale e l’insorgenza è legata agli allergeni coinvolti nel periodo della fioritura (ad esempio i pollini); in alcuni casi la crisi asmatica è causata da altri agenti esterni con cui il soggetto entra in contatto come polveri di casa, peli di animali ecc. Anche un clima fortemente secco o umido può scatenare un accesso asmatico.

L’asma non allergica (detta idiosincrasica o intrinseca) è tipica dell’età adulta: c’è una predisposizione individuale di base, ma le cause determinanti della patologia sono le infezioni da virus e batteri (influenza, bronchite, pertosse, morbillo) e l’inquinamento ambientale. Altre cause importanti sono quelle professionali (inalazione di sostanze irritanti), l’assunzione di farmaci (acido acetilsalicilico) e lo sforzo fisico. Alcuni fattori meccanici (attività sportiva, ridere eccessivamente, assumere cibi freddi) ed emotivi (stati d’ansia o di rabbia) e altre patologie, come il reflusso gastroesofageo, possono scatenare l’attacco.

La sintomatologica asmatica è legata anche ad un complesso simbolismo psicosomatico. Il meccanismo del broncospasmo riflette lo schema psicologico-affettivo del soggetto preso in carico dal corpo, poiché l’aria che egli tenta di trattenere corrisponde al nutrimento che ci permette di vivere, quindi è strettamente correlato all’elemento materno. Infatti,  il problema centrale dell’asmatico è legato ad un’eccessiva e non risolta dipendenza dalla madre, o da chi la rappresenta. In questa dinamica complessa, la madre manifesta un amore ambivalente: in modo quasi impercettibile, fa capire al figlio che all’interno del legame ci sono delle regole che lei ha stabilito e che lui non deve oltrepassare; se ciò dovesse avvenire, la conseguenza sarebbe la sospensione di quell’amore vitale, simboleggiato dall’aria.  Ogni qualvolta il soggetto cerca di mettere in atto una scelta autonoma, si attiva la paura arcaica di essere privati dell’aria/amore: la crisi asmatica scatta per cercare di trattenere quanta più aria possibile. Ma più questa viene trattenuta, più è impossibile l’ingresso di altra aria, per questo il soggetto ha la reale percezione del soffocamento. L’asmatico ha vissuto in un ambiente carico di tensioni e di aspettative continue, dove il rimprovero costante di deluderle ha invaso l’aria, anche senza essere mai stato pronunciato.

La medicina alternativa utilizzata per trattare l’asma non si contrappone né tenta di sostituirsi a quella convenzionale ma, al contrario, attraverso la sinergia dei due approcci diventa uno strumento completo di cura e prevenzione orientato alla persona e alla sua costituzione psicofisica, utilizzando rimedi che non aggiungono effetti collaterali ai già gravosi sintomi e gestiscono la patologia anche dal punto di vista della prevenzione.


Antimonium tartaricum 5 CH

È uno dei più importanti rimedi omeopatici per l’asma; la sua sfera d’azione è sull’apparato respiratorio, con tutte le patologie ad esso correlate (bronchiti acute e croniche, broncopolmoniti ecc.) e sulla cute. L’asma di Antimonium si presenta con una forte ostruzione bronchiale, dispnea, ipersecrezione di grandi quantità di muco denso difficili da espettorare. Il soggetto è pallido, prostrato, ha gli occhi cerchiati da occhiaie bluastre; la tosse è scarsa, con rantoli e respiro affannoso. I sintomi peggiorano con il calore e stando distesi mentre migliorano con l’espettorazione e se il soggetto si siede. L’asma si presenta sia nei bambini che negli anziani; quest’ultimi, in particolare, sviluppano delle turbe respiratorie croniche accompagnate dalla triade di sintomi prostrazione-pallore e sonnolenza. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Kalium carbonicum  9-15CH

Il rimedio ha un’azione generale su tutte le mucose (respiratorie, digestive, genitali), sul sistema circolatorio, articolare e nervoso centrale. La crisi asmatica si presenta principalmente di notte (tra le 2 e le 4 del mattino) con dispnea, respirazione è faticosa, fischiante e sibilante, tosse incessante e violenta con secrezioni espulse bruscamente in piccole masse grigiastre e sensazione di dolore alla base polmonare destra. I sintomi peggiorano con il freddo e migliorano stando seduti, piegati in avanti con i gomiti appoggiati alle ginocchia. I soggetti Kalium carbonicum si ammalano facilmente alle vie respiratorie, sono ansiosi per tutto e manifestano una sindrome depressiva con ipersensibilità alle stimolazioni esterne. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.


Blatta orientalis  5-7-9CH (forma acuta) o 15-30CH (forma cronica)

Il rimedio si utilizza nelle bronchiti asmatiformi acute, con notevole ostruzione bronchiale, a volte accompagnate da febbre. La crisi asmatica si presenta con respiro ansimante, dispnea migliorata dall’espettorazione, accumulo di muco, rantoli e sibili. I sintomi sono scatenati o aggravati da allergeni come muffe, polveri di casa, umidità o provocati da uno sforzo. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì nella fase acuta; 3 granuli sublinguali mattina e sera nella forma cronica.


Ipeca
 5-7CH

Il rimedio ha un’azione generale a livello delle mucose dell’apparato respiratorio e digestivo; indicato per bronchiti acute, bronchioliti e pertosse. L’asma di Ipeca si manifesta con tosse spasmodica accompagnata da nausea e vomito, rantoli e sibili, ipersalivazione, senso di soffocamento e eccesso di muco nei bronchi che il soggetto non riesce ad espettorare. La lingua è pulita o scarsamente patinosa. La forma asmatica di questo rimedio è cronica, torna periodicamente ogni anno e rende il soggetto debole, pallido e senza forze. I sintomi peggiorano con il movimento e il freddo, mentre migliorano con il riposo e all’aria aperta.  Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Arsenicum album 7-9CH

Nella clinica omeopatica è il rimedio d’elezione per l’asma e si utilizza per le crisi asmatiche prevalentemente notturne, con tosse secca e scarsa, che peggiorano stando sdraiati o tenendo la testa bassa, con il movimento e con l’aria fredda. Il soggetto che corrisponde al rimedio vive le crisi con ansia e angoscia, desidera muoversi e camminare, teme di morire soffocato; il viso è segnato da occhiaie profonde. L’asma migliora stando seduto o piegandosi in avanti. Spesso i disturbi asmatici si alternano a quelli cutanei (eruzioni).  Arsenicum album viene prescritto spesso per l’asma periodica degli anziani.  Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Drosera 7-9CH
Questo rimedio agisce su varie affezioni, in particolare su quelle dell’albero respiratorio come laringiti, tracheobronchiti, pertosse. La crisi d’asma si presenta soprattutto la notte con tosse secca, spasmodica e soffocante con senso d’oppressione o dolore al petto come se “l’aria fosse trattenuta e non potesse essere espirata”. Spesso si verifica un’irritazione catarrale a livello della laringe con sensazione di solletico o di corpo estraneo che provoca lo stimolo della tosse; quest’ultima si accentua parlando velocemente, ridendo o cantando. I sintomi migliorano con il movimento e con la pressione delle mani, in presenza di dolori costali o addominali provocati dalla tosse. La crisi può essere accompagnata da segni concomitanti come cianosi del volto e febbre con cefalea costrittiva.
Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.


Sambucus nigra 5-7CH

Il rimedio agisce principalmente sull’apparato respiratorio, in particolare su quello dei bambini: una laringite stridula sveglia bruscamente il malato di notte con un senso di soffocamento e una tosse improvvisa e dispnoica, sudorazione profusa che cessa quando il soggetto si riaddormenta. Il sintomo migliora stando seduti e peggiora a testa bassa e con l’aria fredda e secca. Sambucus può presentare anche una forma di rinite con ostruzione nasale. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Dulcamara 5CH

Dulcamara si utilizza per i soggetti estremamente sensibili al tempo umido nei quali le crisi d’asma sono scatenate dall’umidità, soprattutto quella conseguente ad un periodo di caldo, all’esposizione al freddo umido e al tempo piovoso o nebbioso. Il soggetto si raffredda facilmente dopo aver sudato o essersi bagnato. La crisi asmatica si accompagna a tosse secca, roca, abbaiante, con difficoltà respiratoria e espulsione di muco che spesso resta nell’ipofaringe costringendo il malato a raschiarsi la gola. Spesso l’asma compare in associazione al raffreddore e alla febbre da fieno che si verifica tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno. Uso: 3 granuli sublinguali da 1 a 3 volte al dì.

Poumon Histamine 15CH

Questo bioterapico contiene numerosi mediatori delle allergie e delle infiammazioni ed è quindi indicato nella regolazione dei meccanismi della reazione allergica, in particolare a livello delle vie respiratorie. Si utilizza per asma, allergie respiratorie e cutanee. Uso: 3 granuli sublinguali da 1 a 3 volte al dì.

FITOTERAPIA

ELICRISO (Helichrysum italicum G. Don) TM

La pianta ha un’azione balsamica, spasmolitica bronchiale, sedativa della tosse e antiallergica. E’ indicata nell’asma, specie nella forma allergica, nelle bronchiti catarrali, nelle riniti e nelle irritazioni cutanee di origine allergica. Uso: 20 gocce di TM in poca acqua da 1-2 volte al giorno, al risveglio. Evitare l’uso nelle malattie occlusive delle vie biliari, in gravidanza e allattamento. Assumere solo dietro consiglio medico.

PIANTAGGINE (Plantago major L.) TM

Questa pianta trova applicazione nelle infiammazioni dell’apparato respiratorio e ha proprietà antibatteriche, espettoranti e sedative. Grazie alla presenza del glucoside aucubina, contenuto nelle foglie fresche, la Piantaggine ha anche un’azione antiallergica e decongestionante. E’ indicata in caso di asma allergica, bronchite asmatiforme, rinite. Uso: 30 gocce di TM in poca acqua 1-3 volte al giorno. Assumere in gravidanza, allattamento e in associazione con altri farmaci solo dietro consiglio medico.

GEMMOTERAPIA

VIBURNO(Viburnum Lantana L.)MG 1DH

Il Viburno si utilizza nell’asma bronchiale, anche allergica, in tutte le sue forme (episodica, intermittente, periodica, continua), nella bronchite cronica asmatiforme, nella dispnea sibilante. Ha un’azione broncodilatatrice e regola il tono bronchiale. Utile l’associazione con Ribes Nigrum gemmoderivato.Uso: 30-40 gocce di MG in poca acqua ogni sera. Assumere in gravidanza, allattamento e in associazione con altri farmaci solo dietro consiglio medico.

RIBES NERO (Ribes nigrum L.) MG 1DH

Il Ribes nero è il gemmoterapico d’elezione per le sindromi allergiche: esso agisce al livello della corteccia surrenale e ha un effetto cortisonico-simile. E’ indicato per riniti, congiuntiviti, faringiti, laringiti, asma bronchiale, dermopatie allergiche, bronchiti, orticarie. Controindicazioni: in soggetti predisposti può provocare un aumento della pressione arteriosa. La foglia di Ribes nero ha un’azione diuretica, pertanto è sconsigliata la somministrazione in associazione con diuretici per l’insufficienza cardiaca o renale. Uso: 30 gocce di MG in poca acqua 1-2 volte al giorno, preferibilmente al mattino. Assumere in gravidanza, allattamento e in associazione con altri farmaci solo dietro consiglio medico.

OLIGOTERAPIA

Manganese (Mn) Zolfo (S) e Fosforo (P)

L’oligoterapia inquadra l’asma all’interno della diatesi allergica (detta anche “del Manganese”) che interviene in tutte le patologie di tipo allergico come riniti, eczema, asma, orticaria. Il Manganese ha un’azione desensibilizzante, lo Zolfo è indicato in tutte le forme d’asma mentre il Fosforo è coadiuvante nel trattamento degli spasmi respiratori. Uso come preventivo: Manganese, 1 fiala alla settimana per 2 mesi; Zolfo, 1 fiala 3 volte alla settimana per 2 mesi; Fosforo, 1 fiala 3 volte alla settimana per 2 mesi. Nella fase acuta: Manganese, 1 fiala alla settimana; Zolfo, 1 fiala al giorno; Fosforo, 1 fiala al giorno.

 

SALI DI SCHÜSSLER

Kalium sulfuricumD6

Rimedio indicato per bronchiti catarrali con espettorazione gialla, acquosa e appiccicosa che peggiora la sera e negli ambienti chiusi e caldi. E’ utile per tutte le infiammazioni croniche (bronchiti, faringiti, laringiti) e facilita l’escrezione e la disintossicazione. Uso: 1 o 2 compresse sublinguali, 2 o 3 volte al dì.

Natrium sulfuricum D6

Questo rimedio si utilizza per l’asma e il raffreddore scatenati dall’umidità e dallo sforzo fisico; la tosse è dolorosa e accompagnata da dispnea, rantoli e muco giallo/verdastro che ostruisce il torace.  Uso: 1 o 2 compresse sublinguali, 2 o 3 volte al dì.

 

Marta Chiappetta e Rocco Carbone

 

 

L’alimentazione per prevenire e curare il diabete

Il diabete colpisce in Italia 3 milioni circa di persone, cioè il 4,9 % della popolazione. A questi vanno aggiunti circa 1,6 milioni di persone affette da diabete senza esserne a conoscenza e altri 2,6 milioni di persone che sono affette da una forma di alterazione del metabolismo dei carboidrati, detta ipotolleranza glucidica, che rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare e si trasforma spesso in diabete vero e proprio. Secondo l’andamento della malattia nel 2030 i diabetici in Italia saranno circa 5 milioni. Nel mondo, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità i diabetici sono 336 milioni e nel 2030 si stima raddoppino. Esistono farmaci, oltre all’insulina, per curare il diabete, ma la maggior parte delle persone con diabete ha nella terapia alimentare e nel movimento fisico il fulcro della cura. Le stesse indicazioni peraltro valgono anche per la prevenzione della malattia.

Quali sono le cause del diabete?
Il diabete (tecnicamente detto “mellito” ma generalmente conosciuto come diabete) è una malattia caratterizzata da iperglicemia, cioè da un aumento del glucosio nel sangue. Esistono due forme principali di diabete dette “tipo1” e “tipo2”.
Il diabete tipo 1 è conseguente alla distruzione, con un meccanismo autoimmune, delle cellule Beta del pancreas. Queste sono proprio le cellule deputate alla produzione di insulina che è l’ormone destinato a tenere nel giusto valore lo zucchero nel sangue. Quando la distruzione delle cellule beta supera circa l’80% le restanti cellule beta non riescono a produrre insulina in quantità adeguata e si manifesta dunque l’innalzamento della glicemia. Il diabete tipo 1 (una volta chiamato insulinodipendente) è quello tipico dei bambini e dei giovani, ma può comunque manifestarsi anche in età adulta.
Il diabete tipo 2 invece è conseguenza di una cattiva funzione dell’insulina (insulinoresistenza) causata da un eccesso di grasso, specialmente quello localizzato nell’addome. Il grasso addominale dunque genera insulinoresistenza, cioè inadeguata funzione dell’insulina. Le cellule beta cercano di compensare l’insulinoresistenza aumentando la produzione di insulina e generando un aumento del tasso ematico insulinemico (iperinsulinemia). Quando però, verosimilmente per cause genetiche, nel tempo le cellule beta non riescono a sostenere questa aumentata produzione compensatoria, allora l’attività insulinica diventa inadeguata e si manifesta l’iperglicemia. Dunque la causa iniziale del diabete tipo 2 consiste, nella maggior parte dei casi, nella presenza di eccesso di adipe, specialmente se localizzato nell’addome. Il diabete tipo 2 (una volta chiamato non-insulinodipendente) è tipico dell’adulto, ma da alcuni anni, a causa dell’aumento dell’obesità infantile, si manifesta anche nei bambini.
Va saputo che nella popolazione generale adulta è francamente obeso il 10% e sovrappeso il 44%.
E’ evidente che se se il diabete tipo 1 trova la sua causa nella mancanza di insulina, la terapia non potrà prescindere dalla somministrazione dell’ormone carente. Nel diabete tipo 2 invece, dove la causa prima del processo patologico è l’eccesso di grasso addominale, il nucleo centrale della terapia è costituito dal dimagramento.

Fattori di rischio

Età. Con l’aumentare dell’ età il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 aumenta. E piuttosto basso fino verso i 45 anni mentre dopo aumenta sensibilmente e progressivamente. Purtroppo l’età è un fattore di rischio non modificabile. Tuttavia più l’età è avanzata e più si devono tenere sotto controllo gli altri fattori di rischio e migliorare lo stile di vita ed effettuare lo screening per la diagnosi precoce.

Familiarità. Avere un familiare di primo grado (genitore o fratello) affetto da diabete mellito di tipo 2 aumenta notevolmente il rischio di sviuppare la malattia perchè il diabete ha una forte componente genetica nel suo sviluppo. Anche se il parente aveva un diabete con una iperglicemia lieve, la malattia va pur sempre considerata come fattore di rischio. Non esiste “diabete di poco peso”, perche l’impronta genetica si trasmette anche se la glicemia non è particolarmente elevata. D’altro canto definizioni come dibete senile o diabete alimentare, che vorrebbero indicare forme di diabete di scarsa pericolosità, non hanno nessun riscontro nella clinica. Naturalmente familiare o ereditario non significa inevitabile. Anzi, se si applicherà uno stile di vita attivo e si eviterà di ingrassare le probabilità si ridurranno di molto.

Glicemia. Se si è avuta in passato una glicemia superiore al normale (la glicemia è normale fino a 100 mg/dl), come può essere successo in gravidanza o durante una malattia stressante o per altre cause ancora, il rischio di sviluppare la malattia è elevato anche se la glicemia è poi tornata nella norma. In questi casi è obbligatorio ricontrollare la glicemia almeno ogni anno anche se il risultato è normale.

BMI (Body Mass Index). Il BMI o indice di massa corporea, è la stima più usata per valutare l’adeguatezza del peso di un individuo. Si calcola dividendo il peso in chili per l’altezza in metri al quadrato o, forse piu semplicemente, dividendo il peso in chili per l’altezza in metri e poi dividendo nuovamente il risultato ottenuto per l’altezza in metri. Un valore di BMI sotto 20 è indice di magrezza, tra 20 e 25 è nella norma, tra 25 e 30 è indice di sovrappeso, oltre 30 è diagnostico di obesità. Sovrappeso e obesità sono gravi fattori di rischio per il diabete.

Circonferenza vita. Una circonferenza addominale, misurata all’altezza dell’ombelico di oltre 102 cm nell’uomo e 88 nella donna e indice di una eccessiva quantita di grasso a livello dell’addome. Questo rappresenta un fattore di rischio notevole di sviluppare il diabete perche è proprio il grasso addominale che maggiormente determina insulinoresistenza. Il grasso della braccia e delle cosce di per sè sembra meno pericoloso da questo punto di vista.

Attività fisica e sedentarietà. Una scarsa attività fisica e la sedentarietà di per sè sono un fattore di rischio per il diabete. Occorre combatterli con una attività fisica che preveda almeno 150 minuti di esercizio aerobico come una camminata a passo vigoroso. Ultimamente si è visto che l’aggiunta di sedute di esercizio fisico contro resistenza possono ulteriormente migliorare l’effetto dell’attività fisica.

Macrosomia. Aver partorito un bambino di peso superiore ai 4 kg rappresenta per la donna un
Le complicanze del diabete. Prevenire o curare adeguatamente il diabete è importantissimo in quanto esso comporta complicanze gravi sia dal punto di vista umano che dal punto di vista dei costi dell’assistenza. Il diabete è infatti causa di retinopatia e cecità, insufficienza renale e dialisi, infarto miocardico, ulcere del piede e amputazioni.

La terapia nutrizionale
Nei tempi passati si riteneva che le persone con diabete dovessero tenere una alimentazione speciale, del tutto diversa dagli altri, e soprattutto alquanto ristretta in carboidrati. Da alcuni anni invece si è ben diffuso il concetto che le persone con diabete devono si mangiare in modo sano, ma non diversamente da quanto debbono fare le persone senza diabete. Insomma, i consigli che diamo alle persone con diabete sono gli stessi che dovrebbero seguire tutti per tenere una alimentazione che faciliti lo stare in salute. E lo stile alimentare che si adotta per la cura del diabete dell’adulto è lo stesso che è utile nella prevenzione. Tra i vari stili alimetari, quello che è universalmente ritenuto il piu efficace è la nota dieta mediterranea.
In cosa si caratterizza questo modello?
Esso rappresenta lo stile alimentare che le popolazioni del bacino mediterraneo tenevano negli anni 50 quando uno studioso, Ancel Keys, confrontò la incidenza delle malattie cardiovascolari con gli stili alimentari di sette paesi (seven Country study): Finlandia, Giappone, Stati Uniti, Iugoslavia, Grecia e Italia.
Il risultato fu che i paesi del bacino mediterraneo avevano una incidenza di malattie cardiovascolari assai inferiori agli altri paesi. Ciò corrispondeva ad una alimentazione che per i primi era particolarmente ricca di carboidrati complessi (amidi) e verdure (fibre) mentre per i secondi era particolarmente ricca di grassi animali (saturi). Naturalmente va sottolineato che si tratta di stili alimentari degli anni 50, quindi non si deve certo ritenere che la dieta mediterranea, intesa come modello salutare di alimentazione, abbia molto a che fare con l’alimentazione che in Italia si pratica attualmente.
Le caratteristiche peculiari della dieta mediterranea erano l’abbondante presenza di cereali, come pane, pasta, riso ma anche mais, orzo, farro; dalla presenza di legumi come fagioli, ceci, lenticchie; dalla abbondante presenza di verdura e frutta fresca, dalle ricca presenza di olio vegetale (vergine di oliva) e dalla ridotta presenza di carni che comunque erano preferibilmente carni “bianche” (pollame, coniglio, pesce) piuttosto che carni “rosse” (bovini, maiale)

La perdita di peso. Il sovrappeso o la franca obesità, come abbiamo visto, sono un importante fattore di rischio per lo sviluppo del diabete e una causa stessa nella maggior parte di casi della malattia. E’ dunque fondamentale ridurre il peso corporeo, sia per curare il diabete, sia per cercare di prevenirlo. E’ sufficiente la perdita del 5-10% del peso per avere, da una parte, una consistente diminuzione del rischio di diventare diabetici, e dall’altra un adeguato miglioramento delle glicemie in quanti hanno già sviluppato la malattia. Naturalmente nei casi in cui sia possibile raggiungere traguardi piu ambiziosi di calo ponderale li si potranno perseguire, avendo però valutato attentamente il rischio di “ricaduta”. Maggiore è lo sforzo che si fa per dimagrire e maggiore sarà il rischio di riprendere peso, magari superando quello di partenza. Perdere peso tuttavia è tutt’altro che facile. Quasi tutti i regimi alimentari ristretti in calorie sono in grado, nel breve periodo, di determinare una diminuzione della massa grassa corporea. Dopo qualche tempo però, il risultato generalmente si perde. Lo stile alimentare che sembra meglio conservare il risultato raggiunto è proprio la dieta mediterranea associata ad una modifica dello stile di vita. Va specificato che difficilmente un dimagramento potrà essere conseguito e, soprattutto conservato, se non si associa alla dieta un incremento della attività fisica.

L’introito calorico. Dunque i soggetti in sovrappeso o obesi, sia che siano a rischio di diabete, sia che siano già diabetici, dovranno ridurre il proprio introito di calorie. E’consigliabile una riduzione calorica moderata di circa 500 Kcalorie ed un aumento equivalente del dispendio energetico da movimento. Non si ritiene prudente indicare una dieta con meno di 1300 Kcalorie in un paziente seguito ambulatorialmente. E’ sottinteso che se una persona è in peso corretto (BMI < 30) non ha bisogno di restringere il proprio apporto calorico, mentre restano ovviamente validi gli altri suggerimenti sulla qualità della dieta. La glicemia postprandiale e i carboidrati. La quantità e la qualità dei carboidrati sono il principale determinante della glicemia postprandiale. L’innalzamento della glicemia postprandiale nei diabetici rappresenta di per sè un fattore di rischio cardiovascolare oltre ad uno dei motivi di innalzamento dell’ emoglobina glicata assieme all’iperglicemia a digiuno. E importante contenere l’innalzamento glucidico postprandiale per ridurre l’innalzamento dell’insulina che ne deriva. L’iperinsulinemia infatti facilita di per sè la deposizione del grasso nei siti di deposito, specialmente addominale. Per contenere dunque l’iperglicemia postprandiale è suggerito un apporto di carboidrati complessi compreso tra il 45 e il 60%. Quanto maggiore è la percentuale dei carboidrati e tanto maggiore dovrà essere l’introduzione di alimenti ricchi in fibre e a basso indice glicemico al fine di contenere l’iperglicemia postprandiale.
Le fibre contenute nei vegetali infatti rallentano l’assorbimento del glucosio ed i cibi a basso indice glicemico danno naturalmente un più basso picco glicemico postprandiale. L’indice glicemico infatti è il rapporto tra la glicemia che si raggiunge con l’assunzione di una certa quantità di carboidrati contenuti in un alimento e la glicemia che si raggiunge con la stessa quantità di carboidrati contenuta in un alimento di riferimento che è il pane. Ci sono dunque alimenti che, a parità di contenuto di carboidrati, innalzano maggiormente la glicemia, come il pane, il riso o la pasta, ed altri che, pur contenendo la stessa quantità di carboidrati, la innalzano meno come pasta, legumi, frutta e latte. L’innalzamento glicemico postprandiale deriverà dunque dalla quantità dei carboidrati introdotti e dal loro indice glicemico. Il prodotto di questi due fattori prende il nome di carico glicemico ed è il parametro più corretto per valutare l’effetto dei carboidrati sulla glicemia postprandiale.

Proteine e grassi. Gli altri macronutrienti che oltre ai carboidrati sono contenuti negli alimenti sono le proteine e i grassi. In generale il suggerimento riguardo l’apporto di proteine è di introdurne tra 08-1 g per ogni chilo di peso corporeo. Negli anziani, specialmente se a rischio di perdita di massa muscolare, un apporto maggiore fino a 1,1 g per chilo di peso In definitiva una apporto percentuale tra il 10 e il 20% dell’apporto calorico. Una suddivisione del 50% tra proteine vegetali e animali viene suggerita, tuttavia non vi è preclusione verso la dieta vegetariana. In presenza di nefropatia conclamata non si supererà lo 0.8%.
L’apporto di lipidi andrà a completare il fabbisogno calorico con il 20-30 % delle calorie. I grassi saturi (di origine prevalentemente animale) dovranno essere contenuti entro il 10% essendo responsabili di innalzamento del Colesterolo LDL (cosiddetto cattivo). In caso di persone con innalzamento della colesterolemia tale quota dovrà scendere sotto 8%. Una particolare attenzione si dovrà porre a ridurre l’introito di grassi idrogenati e trans, come quelli contenuti nelle margarine e nei prodotti da forno e altri prodotti alimentari del commercio, in quanto hanno gli stessi effetti negativi sulla colesterolemia e sull’aterosclerosi dei grassi saturi. I grassi a questo scopo preferibili sono i grassi monoinsaturi di cui è particolarmente ricco l’olio di oliva. Alcuni grassi polinsaturi Omega 3, particolarmente presente nel pesce specialmente pesce azzurro e omega 6, presente nei frutti secchi hanno una buona efficacia nella riduzione delle malattie cardiovascolari. La loro efficacia comunque sembra legata alla presenza naturale negli alimenti e non alla additivazione nella dieta.

Le fibre. Un contenuto elevato di fibre alimentari, specialmente di tipo solubile come quelle dei legumi e della frutta, è raccomandato nella quantità di almeno 15 g ogni 1000 Kcalorie della dieta. Antiossidanti e vitamine naturalmente contenuti in verdura e frutta hanno pure un effetto particolarmente benefico.

E dunque nella pratica?
Vediamo in pratica come potrebbe essere composta l’alimentazione quotidiana per una persona che intenda prevenire o tenere sotto controllo il diabete dell’adulto (tipo 2).

Latte e latticini. Il latte a colazione è consentito, scegliendo preferibilmente quello scremato per ridurre la quantità di grassi, soprattutto saturi, anche se la quantità assoluta che si eliminerà non è grandissima. A colazione o durante la giornata lo yogurt, ancora scremato o parzialmente scremato, può essere assunto, contribuendo, assieme al latte, ad un adeguato apporto di calcio.

Pane pasta e riso. Il pane a colazione e ai pasti principali non è vietato. Come tutti gli alimenti ricchi in carboidrati dovrà essere consumato con moderazione per la sua capacità di innalzare la glicemia postprandiale e quindi di aumentare il livello insulinemico. In generale si consiglia di non prevedere nello stesso pasto due alimenti carboidratici come, per esempio, pane e pasta o riso. Ma naturalmente ciò dipenderà dalle reciproche quantità. Gli alimenti carboidratici saranno preferibili se prodotti con farina integrale, piu ricca in fibre. Abitualmente pensiamo al pane e alla pasta fatti con il grano. Ma anche gli altri cereali sono convenientemente utilizzabili: riso, granoturco, orzo, avena, segale, miglio, farro, kamut. Nell’uso della pasta è essenziale fare attenzione ai condimenti che possono essere pesanti veicoli di grassi.

Frutta e verdura. L’apporto di frutta e verdura è raccomandato fortemente. Essi contengono utili fibre, vitamine, antiossidanti. La frutta è ricca di zuccheri “semplici”, piu rapidamente assorbibili e che quindi in elevate quantità potrebbero facilitare l’innalzamento della glicemia postprandiale. Deve essere pertanto assunta in quantità più controllata e soprattutto è meglio se viene assunta intera piuttosto che spremuta perche in questo modo non si perdono le utili fibre. Il consiglio che è attualmente generalmente condiviso è che di frutta e verdura ne vengano assunte almeno cinque porzioni al giorno (qualcuno dice addirittura sette). Un frutto intero per pasto e una abbondante porzione di verdura ai pasti principali permette di avere un introito di fibre, vitamine e antiossidanti adeguato. Per le persone con diabete alcuni frutti particolarmente zuccherini come uva, fichi, babane, cachi e mandarini andranno consumati con attenzione essendo in grado di elevare maggiormente la glicemia postprandiale.
Legumi. Fagioli, ceci, lenticchie, piselli sono alimenti in grado di apportare una discreta quota di carboidrati complessi ma soprattutto di ottime fibre e proteine di discreta qualità. Se si vuole incrementare l’apporto di fibre, l’aumento del consumo di legumi è una strategia utilissima. Le proteine dei legumi, non sono di eccellente qualità ma è ben noto che se si consumano i legumi assieme ai cereali le carenze dei due gruppi si compensano. Pasta e fagioli e pasta e ceci della nostra tradizione ne sono una dimostrazione.

Carne. Le carni apportano proteine di ottima qualità e ferro ben assorbibile. Tuttavia sono ricche di grassi saturi, specialmente quelle di bovini (carni rosse). Dunque sarà opportuno contenere il consumo di queste ultime a vantaggio di moderate quantità di carni bianche come pollame e coniglio. Tutte le forme di carni conservate richiedono attenzione perchè generalmente hanno un alto contenuto di sale. Gli insaccati che contengono parti grasse dovrebbero essere veramente ridotti di molto.

Pesce. Il pesce e in generale i prodotti della pesca contengono ottime proteine e grassi particolarmente vantaggiosi come gli omega 3 che hanno importanti capacità protettive nei confronti delle malattie cardiovascolari. E consigliato di incrementare il consumo di pesce fino e 3-4 porzioni alla settimana.

Formaggi. I formaggi contengono grassi saturi derivati dal latte. Si consiglia di consumarli piuttosto raramente preferendo quelli molli che hanno un contenuto percentuale di grassi minore, come stracchino o mozzarelle. Va ovviamente tenuto presente che il formaggio rappresenta un “secondo” e non un aggiunta a fine pasto.

Olio, frutta secca e semi oleosi. L’olio extravergine di oliva sembra l’olio preferibile perché migliora l’assetto lipidico del sangue. Deve comunque essere consumato in quantità moderata per non introdurre troppe calorie. La frutta secca come noci e mandorle contengono acidi grassi polinsaturi (specialmente omega 6) che hanno anche essi un effetto favorevole sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari. Dunque qualche noce ogni tanto, tenendo conto dell’apporto calorico, può essere consumata con buon vantaggio.

Zucchero. Lo zucchero di casa in piccole quantità, di per se non è “vietato” specialmente se è contenuto all’interno di un pasto misto. Tuttavia ne va considerato l’apporto calorico e la possibilità di comportare incremento ponderale, insulinoresistenza e trigliceridemia.

Sale. la quantità giornaliera di sale deve essere contenuta in 6 grammi. L’obiettivo può essere raggiunto utilizzando poco sale per le cotture ed evitando di aggiungerne ai cibi successivamente e soprattutto ponendo attenzione a non eccedere nell’uso di alimenti ad alto contenuto di sale come insaccati formaggi e scatolame.

Vino. Una assunzione moderata di vino ai pasti, corrispondente ad un bicchiere per la donna e a due per l’uomo è consentita. Sono invece vivamente sconsigliati i superalcolici. Tuttavia va ricordato che il vino apporta una quantità di calorie di cui bisogna tenere conto e che facilità l’innalzamento dei trigliceridi.

Dott. Andrea Corsi

perdite vaginali: bruciore e prurito

Molte donne lamentano spesso bruciore, prurito alla vagina, perdite liquide o semiliquide bianche, giallognole, verdastre a volte maleodoranti e purulente, dolore durante i rapporti sessuali fino a quadri piu’ gravi di ulcerazioni, vescicole.
Sono i sintomi classici della Vaginite, uno stato infiammatorio in fase attiva del tessuto vaginale che coinvolge frequentemente i genitali esterni per cui viene definita anche vulvovaginite.
E’una condizione molto comune, il 75% delle donne va incontro a vulvovaginite nel corso della vita, molte di esse raccontano anche più episodi durante l’anno.

Cause
Più frequenti sono le forme legate al contagio con varie specie di microrganismi:
Funghi come la Candida albicans (candidosi);
Batteri come la Gardnerella vaginalis (vaginosi);
Protozoi come il Trichomonas vaginalis;
Neisseria gonorrhoeae (gonorrea),
Bacterium coli,
Herpes simplex.

Alcuni forme di patologie sistemiche provocano ulcerazioni e aderenze vaginali (tifo, scarlattina, difterite). Gli stimoli chimici (reazioni allergiche, liquido seminale, detergenti troppo aggressivi) o stimoli fisici-meccanici (come il trauma che si crea con un rapporto sessuale, l’uso di profilattici, gli assorbenti interni, l’uso di indumenti troppo attillati) possono predisporre la mucosa alla comparsa di infezione. Sessualmente è possibile anche trasmettere in modo diretto il microrganismo. Frequenti sono le forme di vaginiti in menopausa per l’atrofia dei tessuti da calo degli estrogeni, forma che si può presentare anche dopo il parto e in gravidanza dove le modificazioni delle condizioni dei tessuti vaginali portano alla comparsa di infezioni irritative. L’uso prolungato di antibiotici altera la flora microbica vaginale causando un’ infezione opportunista. Alcuni agenti infettivi possono essere introdotti nella zona vulvo-vaginale da cattiva igiene; in particolare il Bacterium coli normalmente presente nelle feci può essere trasportato dall’ano alla vagina con una pulizia effettuata da dietro verso avanti. Una vaginite che viene trascurata o malcurata può portare ad una forma cronica, alcune di queste dannose per la capacità riproduttiva dell’apparato genitale femminile.

Prevenzione
Una corretta igiene intima aiuta a evitare le infezioni, questo include la corretta igiene delle mani durante la pulizia. Evitare di portare le infezioni anali a livello vaginale con una corretta igiene intima. Inoltre non bisogna usare prodotti aggressivi che possono danneggiare la flora batterica normalmente presente nella vagina e che aiuta a mantenere pulita la zona e a prevenire le infezioni. Il profilattico aiuta a prevenire le malattie trasmissibili sessualmente. Occorre evitare l’uso di indumenti intimi troppo stretti.

Diagnosi
I sintomi clinici orientano sulla diagnosi ma la diagnosi di certezza si ha analizzando le cellule contenute nei secreti prelevati dalla vagina, mediante tamponi vaginali, Pap Test (striscio vaginale) che permette altresì la prevenzione oncologica del tumore del collo dell’utero.

Terapia
La terapia è volta alla cura specifica dell’infezione in corso: somministrazione locale o generale di antibiotici o antimicotici. Alcune infezioni sono a trasmissione sessuale e dunque anche il partner deve essere sottoposto a trattamento per prevenire recidive. Nelle forme da reazione allergica può essere indicato l’uso di cortisone e antistaminici; Nelle vaginiti atrofiche causate da un ridotto apporto di estrogeni può essere indicata l’applicazione locale di sostanze ormonali e l’uso di un lubrificante vaginale idrosolubile per alleviare il dolore durante il coito.

Dr. Massimiliano Giardina
Ginecologo Ostetrico
Via Conca D’Oro 300, Roma
Tel.327.7929379 – 06.8102765
www.massimilianogiardina.com

tiroide e gravidanza

Funzione tiroidea e gravidanza
Durante la gravidanza si crea una condizione di aumentato carico funzionale per la tiroide che deve far fronte a stimoli diversi che intervengono fisiologicamente dal momento del concepimento. Per prima cosa, la tiroide viene maggiormente stimolata in quanto la quota “libera” di ormoni tiroidei, cioè non legata alle proteine di trasporto e quindi attiva, diminuisce in gravidanza come conseguenza dell’aumento degli estrogeni secreti in grande quantità dalla placenta. Si assiste pertanto ad una attivazione del meccanismo di feedback con conseguente stimolazione della secrezione ipofisaria di TSH ed aumento della sintesi e secrezione di ormoni tiroidei da parte della ghiandola fino al ristabilirsi dell’equilibrio.
Inoltre, nel corso del primo trimestre di gravidanza la tiroidea materna è stimolata dalla gonadotropina corionica (CG) in quanto questo ormone ha una grande affinità strutturale con il TSH. L’effetto più importante della CG sul profilo tiroideo è rappresentato da un lieve incremento dei livelli sierici di tiroxina libera (FT4) nelle prime settimane di gravidanza e dalla conseguente riduzione della concentrazione del TSH, che è pertanto da ritenersi fisiologica.
Un terzo fattore è l’aumento del fabbisogno giornaliero di iodio per compensare l’aumentata escrezione urinaria conseguente all’aumento degli estrogeni, alle modificazioni della funzione renale tipiche dello stato gestazionale ed alla presenza della tiroide fetale.

Ipertiroidismo e gravidanza
L’ipertiroidismo colpisce circa lo 0.2% delle gravide. La causa più comune è il Morbo di Graves-Basedow (85-90%), mentre il gozzo uni- o multinodulare iperfunzionante è meno frequente. La diagnosi di ipertiroidismo in gravidanza non è sempre ovvia dal momento che molti dei sintomi tipici quali tachicardia, ipersudorazione, dispnea da sforzo e nervosismo sono caratteristici anche di una gravidanza normale. Le complicanze nella madre includono aborto, distacco di placenta e parto prematuro e, nelle donne con scarso controllo dell’ipertiroidismo è possibile anche l’insorgenza di scompenso cardiaco e crisi tireotossica con un alto rischio di preeclampsia. Per quanto riguarda il feto è stato osservato ritardo di crescita intrauterina, prematurità e ipertiroidismo neonatale da passaggio transplacentare di anticorpi tireostimolanti. Non c’è dubbio, quindi, che l’ipertiroidismo in gravidanza debba essere trattato al più presto al fine di ridurre la percentuale di complicanze.
Morbo di Graves-Basedow in gravidanza
La diagnosi differenziale di questa patologia tiroidea autoimmune non è difficile e può essere confermata dai test di laboratorio. Nelle pazienti in cui la malattia è attiva la terapia di scelta è la terapia medica dal momento che il radioiodio è controindicato in gravidanza e la chirurgia deve essere impiegata solo nei casi in cui è presente gozzo di notevoli dimensioni con segni e sintomi di compressione oppure se l’ipertiroidismo non è controllato dalla sola terapia medica. Il periodo migliore per l’intervento chirurgico è il secondo trimestre di gravidanza dal momento che nel primo trimestre vi è un più alto rischio di aborto.
La paziente deve essere informata che se la diagnosi è stata posta correttamente ed il trattamento iniziato subito, la prognosi sia per la madre che per il feto è eccellente. Sebbene sia stato suggerito che il Propiltiuracile (PTU) è preferibile in gravidanza rispetto al metimazolo (MMI) per i rari casi descritti di aplasia cutis riportati in letteratura in donne che assumevano quest’ultimo farmaco, l’esperienza clinica dimostra che ambedue i farmaci sono egualmente efficaci e sicuri nel trattamento dell’ipertiroidismo nella gestante. La dose di PTU (o MMI) dovrà essere la minima indispensabile per mantenere la paziente eutiroidea e per evitare la possibile insorgenza di gozzo ed ipotiroidismo fetale. La bassa emivita in circolo dei farmaci tireostatici evita che siano presenti in alte concentrazioni nel latte materno, perciò le donne in trattamento con PTU o MMI possono allattare senza grossi rischi.

Gozzo uni o multinodulare in gravidanza
In questi casi l’ipertiroidismo è generalmente più lieve di quello associato al Morbo di Graves-Basedow e il trattamento è quasi sempre medico rimandando la terapia definitiva a dopo l’espletamento del parto.
Ipotiroidismo e gravidanza
L’ipotiroidismo colpisce circa il 2.5-5% delle donne in gravidanza. La causa più comune di ipotiroidismo in gravidanza è la tiroidite autoimmune nelle sue varianti con gozzo (tiroidite di Hashimoto) o atrofia ghiandolare (tiroidite atrofica). Il ruolo preminente delle tireopatie autoimmuni come causa dell’ipotiroidismo in gravidanza è confermato dal rilievo di anticorpi anti-TPO nel 50-60% delle gravide con ipotiroidismo subclinico e nella quasi totalità di quelle con ipotiroidismo franco.
Come per l’ipertiroidismo, è difficile distinguere clinicamente tra i sintomi della gravidanza e quelli dell’ipotiroidismo, ma se non riconosciuto e trattato, l’ipotiroidismo può avere effetti negativi sul benessere materno e fetale. Le complicanze più frequentemente osservate sono l’ipertensione arteriosa nell’ambito di una preeclampsia, basso peso alla nascita, distacco placentare, morte fetale endouterina, malformazioni congenite. E’ stato inoltre osservato un minor quoziente intellettivo nei figli di madri ipotiroidee non trattate o non sufficientemente trattate in gravidanza. Infatti il passaggio transplacentare di tiroxina dalla madre al feto nelle prime settimane di gestazione, quando la tiroide fetale non ha ancora cominciato a funzionare, è molto importante per un completo sviluppo cerebrale del feto. E’ necessario, quindi, che l’ipofunzione tiroidea della gestante sia diagnosticata e corretta con la terapia sostitutiva nel minor tempo possibile. L’aumento dei livelli di TSH nel siero è l’indice più sensibile e specifico per la diagnosi di ipotiroidismo primitivo in gravidanza. Quindi la misurazione del TSH circolante dovrebbe essere effettuata nel corso della prima visita in ogni paziente gravida con anamnesi personale o familiare positiva per patologia tiroidea, diabete mellito, autoimmunità tiroidea o altre patologie autoimmuni. Naturalmente il trattamento dell’ipotiroidismo si basa sulla terapia sostitutiva con l’ormone tiroideo poichè l’assunzione di L-tiroxina durante la gravidanza è sicura e non ci sono in seguito controindicazioni all’allattamento. La dose sostitutiva di L-tiroxina è maggiore in gravidanza rispetto al periodo pre e post gravidico e, dopo l’inizio del trattamento sostitutivo, i livelli del TSH e degli ormoni tiroidei liberi devono essere controllati 1 volta al mese e la dose di L-tiroxina aggiustata di conseguenza per tutto il periodo della gravidanza. Dopo il parto la dose di L-tiroxina deve essere riportata a quella somministrata prima della gravidanza.

Dipartimento di Malattie Endocrine e Metaboliche
Ospedale San Luca, IRCCS Istituto Auxologico Italiano
Piazzale Brescia, 20-20149 Milano
Email: l.fugazzola@auxologico.it

Dott.ssa Laura Fugazzola
Professore di Endocrinologia, Università di Milano
Dott.ssa Guia Vannucchi
Specialista in Endocrinologia
Dott. Luca Persani
Professore di Endocrinologia, Università di Milano

la biopsia prostatica

La biopsia prostatica rappresenta l’esame diagnostico fondamentale nella diagnosi del tumore della prostata. Questa procedura – introdotta ormai alcuni decenni fa – si basa sull’esecuzione di prelievi di tessuto prostatico sotto guida ecografica (biopsia prostatica “eco-guidata”). La guida ecografica è resa possibile dall’utilizzo di sonde transrettali che indirizzano l’ago per la biopsia all’interno della prostata. L’ago può arrivare alla ghiandola prostatica passando attraverso la mucosa del retto o la cute del perineo.

Dal momento che l’accuratezza dell’ecografia nel riconoscere le aree tumorali prostatiche è limitata, la biopsia prostatica eco-guidata prevede attualmente l’esecuzione di una serie predefinita di prelievi secondo uno schema standard: si tratta pertanto di un campionamento “alla cieca” o “mappatura” casuale (“random biopsy”) e – tranne che per una minoranza di casi – non è possibile eseguire prelievi mirati verso aree tumorali sospette.
Questo tipo di procedura comporta pertanto una serie di problemi:

1. La necessità di eseguire un numero elevato di prelievi comporta un rischio più alto di complicanze e tempi allungati di esecuzione.
2. La bassa capacità dell’ecografia nel riconoscere le zone tumorali determina un rischio notevole di “mancare” il tumore prostatico: circa il 30% dei pazienti sottoposti a prima biopsia prostatica con risultato negativo sono in realtà dei falsi negativi (in cui il tumore verrà diagnosticato con inevitabile ritardo solo dopo una seconda biopsia eseguita con un numero ancora più elevato di prelievi).
3. La necessità di eseguire prelievi alla cieca comporta un rischio non trascurabile di diagnosticare micro-focolai di tumori prostatici a bassissima malignità (tumori “indolenti” o clinicamente insignificanti) che espongono i pazienti ad un successivo rischio di trattamento eccessivo (“over-treatment”).

Oggi fortunatamente disponiamo di una tecnica di imaging molto più potente dell’ecografia nel vedere i tumori prostatici: la risonanza magnetica multiparametrica prostatica (RM-mp). La nuova tecnica di biopsia prostatica mirata sulle immagini della risonanza magnetica rappresenta una rivoluzione della procedura: rispetto alla tecnica di biopsia eco-guidata è risultata più accurata nella diagnosi dei tumori prostatici aggressivi e richiede un numero minore di prelievi.

In cosa consiste la risonanza magnetica multiparametrica della prostata?
Si tratta di una tecnica che sfrutta il principio delle radiofrequenze e va pertanto considerata una procedura – al pari dell’ecografia – non invasiva (non utilizza infatti radiazioni ionizzanti). Viene definita “multi-parametrica” perché prevede l’analisi di molteplici parametri relativi alla prostata: oltre alla valutazione morfologica della ghiandola, si studiano anche gli aspetti funzionali e metabolici dei tessuti prostatici in modo da aumentare la capacità di identificare le lesioni tumorali. Per ulteriori dettagli si rimanda a questo precedente articolo interamente dedicato alla risonanza magnetica multi-parametrica.

La sensibilità della metodica (ovvero la capacità di riconoscere la presenza di un tumore) è risultata estremamente elevata e pari al 90%: 9 tumori prostatici su 10 sono realmente visibili dalla RM-mp. Si tratta quindi di un notevolissimo miglioramento rispetto all’ecografia transrettale dove più della metà dei tumori risultano completamente invisibili.
Inoltre è stato dimostrato che – nell’ambito dei tumori non visibili dalla RM-mp – la maggior parte si tratta di neoplasie a bassa malignità: da un certo punto di vista è un bene non diagnosticare queste lesioni, dato che sono spesso non pericolose per la salute del paziente e fonte di possibile over-treatment (se identificate).
L’ideale sarebbe quindi sottoporre il paziente a biopsia prostatica direttamente durante l’esame di RM-mp e realizzare quindi una biopsia “RM-mirata”. Questa procedura è teoricamente possibile ma – a causa di una serie di aspetti tecnici – risulta estremamente indaginosa, lunga e costosa. In pratica si esegue solo in centri ultra-specializzati e a scopo solo di ricerca.
Per utilizzare le informazioni della RM-mp e trasformare le zone sospette in reali bersagli per la biopsia si può ricorrere alla nuova tecnica di fusione (“fusion”) delle immagini della risonanza con quelle ecografiche. In questo modo la biopsia avviene come in passato con la tecnica eco-guidata ma con immagini “potenziate” in cui sono state integrate le aree bersaglio identificate dalla risonanza.
La nuova tecnica di fusione di immagini eco-RM: il presente e il futuro della biopsia prostatica.
La possibilità di fusione delle immagini è resa possibile dalla messa a punto di apparecchi ecografici di ultima generazione in cui è possibile “caricare” e integrare quanto riscontrato dalla RM-mp. In pratica – per l’esecuzione della biopsia con tecnica fusion – è sufficiente che il paziente abbia eseguito in precedenza la risonanza magnetica ed abbia con sé il supporto informatico contenente le immagini (ovvero il CD o DVD).
Le fasi della biopsia prostatica con fusione di immagini:

1. Si importano le immagini della RM-mp all’interno dell’hardware dell’ecografo. Le immagini della risonanza possono essere quindi viste sul monitor dell’ecografo e si vanno ad identificare le zone sospette segnalate dal medico radiologo.
2. Si introduce la sonda ecografica transrettale. Il monitor dell’ecografo è diviso in due parti: in una finestra sono visibili le immagini ecografiche della prostata ottenute in diretta dalla sonda ecografica; nella seconda finestra sono presenti le immagini della RM-mp precedentemente importate. Attraverso la presenza di un magnete e di particolari sensori di cui è dotata la sonda transrettale, è possibile “navigare” attraverso le immagini della risonanza: in pratica ad ogni movimento della sonda ecografica corrisponde lo stesso “movimento” sul monitor delle immagini ottenute in risonanza.
3. Il punto chiave della tecnica è quello della fusione. Utilizzando alcuni riferimenti anatomici ben visibili in entrambe le immagini (eco e RM) si fa in modo che ci sia una perfetta corrispondenza spaziale tra ciò che si vede nelle due finestre del monitor. A questo punto – azionando un apposito comando – avviene la procedura software di fusione delle immagini ecografiche con quelle ottenute dalla risonanza magnetica. Da questo momento in poi ritroveremo le aree bersaglio (individuate con RM-mp) integrate nelle immagini ecografiche ottenute dalla sonda transrettale.
4. Si procede a questo punto all’esecuzione dell’anestesia locale e successivamente a quella dei prelievi bioptici. Se la fusione spaziale è avvenuta in modo preciso, i prelievi bioptici risulteranno perfettamente centrati all’interno delle zone sospette identificate dalla RM-mp. Questo – come già detto – trasforma la biopsia prostatica da una metodica di campionamento alla cieca in una tecnica bioptica precisa e mirata.

Efficacia diagnostica della nuova tecnica di biopsia fusion:
I risultati ottenuti in termini di accuratezza diagnostica sono così elevati che alcuni nuovi protocolli di biopsia prostatica prevedono di eseguire i prelievi solo nelle aree sospette individuate dalla RM-mp. Questo comporta una netta riduzione del numero di biopsie inutili con ovvi benefici per i pazienti.
Confrontando i risultati della biopsia eco-guidata con quelli della tecnica fusion si osserva un netto calo di casi falsi-negativi (ovvero di biopsie risultate negative in pazienti affetti da cancro prostatico): si passa infatti dal 30% a un valore inferiore al 10%.

Complicanze della biopsia prostatica con tecnica di fusione:
Le complicanze di questa metodica sono le stesse della biopsia prostatica tradizionale, ma la loro incidenza è risultata più bassa. Questo deriva ovviamente dal fatto che il numero di prelievi bioptici risulta inferiore.
Il tipo di complicanze è diverso a seconda del tragitto che viene fatto compiere all’ago bioptico (transrettale o transperineale).
Le complicanze più frequenti sono rappresentate dalla presenza di perdite di sangue nelle urine (“ematuria”), nel liquido seminale (“emospermia”) o dal retto (“proctorragia”). Si tratta quasi sempre di problemi di lieve entità e con risoluzione spontanea nel giro di alcuni giorni.
Nella biopsia transrettale esiste un rischio di infezioni urinarie dovute al passaggio di germi presenti nel retto verso la ghiandola prostatica. In rari casi può verificarsi una prostatite acuta con fastidiosi sintomi urinari fino alla ritenzione urinaria e necessità di posizionare temporaneamente un catetere vescicale. La biopsia prostatica fusion consente di ridurre notevolmente questi rischi.

Diffusione della metodica:
Gli apparecchi ecografici di ultima generazione che consentono la fusione delle immagini hanno un costo elevato (abbondantemente superiore ai 100’000 euro) e la loro diffusione nelle strutture sanitarie (sia pubbliche che private) è ancora limitata.
La nostra unità operativa urologica (la ASL 4 della Liguria situata nel levante della provincia di Genova) dispone da quest’anno di un nuovo ecografo dotato di fusion-technology (GE Loqiq S8) che ci consente di realizzare biopsie prostatiche di fusione in modo regolare e continuato.
Maggiori informazioni sull’apparecchio ecografico in questione possono essere recuperate sul sito web della casa produttrice.

Messaggio conclusivo:
La nuova tecnica di biopsia prostatica con fusione di immagini eco-RM sta rivoluzionando il percorso diagnostico nei pazienti con sospetto tumore della prostata. Sfruttando l’elevata sensibilità della risonanza magnetica multiparametrica nell’individuare le zone sospette per la presenza del tumore, questa nuova procedura bioptica consente di eseguire prelievi estremamente precisi e mirati. Questo comporta un netto miglioramento dell’accuratezza diagnostica e consente di ridurre il numero dei prelievi bioptici con conseguente riduzione del rischio di complicanze.

Le rinosinusiti

IL NASO E I SENI PARANASALI – Cenni di anatomia
Le sinusiti, meglio denominate rinosinusti, sono le infiammazioni del naso e dei seni paranasali. Ritengo utile precisare alcuni semplici concetti anatomici del distretto interessato. Il naso è ben noto a tutti, è costituito da due cavità (fosse nasali) separate da una parete ossea e cartilaginea: il setto nasale (figura 1). All’interno delle fosse nasali sono presenti i turbinati, tre per ciascun lato. Sotto ad ognuno c’è un piccolo spazio che prende il nome di meato (inferiore, medio e superiore).
Molto più complessi sono i seni paranasali, si tratta di sei cavità scavate nelle ossa della faccia e disposte attorno alle fosse nasali. In uno sdoppiamento dell’osso frontale ci sono i seni frontali, i quali, con specifici dotti, drenano le loro secrezioni nella porzione antero-superiore delle fosse nasali. Più in profondità rispetto ai seni frontali c’è il seno etmoidale e ancora più in profondità c’è il seno sfenoidale. Molto importante è l’etmoide perché attraverso una sottile lamina (lamina cribra) passano le fibre nervose olfattive. E’ facile comprendere come importanti malattie che colpiscono la porzione superiore del naso o l’etmoide comportano anche alterazioni o riduzioni dell’olfatto.
Ai lati delle fosse nasali, scavati nelle ossa mascellari, ci sono i seni mascellari destro e sinistro. Questi sono due cavità che presentano un orifizio naturale nel meato medio.
Le funzioni del naso sono l’umidificazione, la depurazione, la purificazione e il riscaldamento dell’aria inspirata. Passando per le fosse nasali l’aria è idonea per una buona respirazione polmonare. Inoltre non dobbiamo dimenticare che il naso è l’organo dell’olfatto, un senso spesso sottovalutato.
Più difficile da spiegare è la funzione dei seni paranasali: essendo cavità piene d’aria alleggeriscono la parte anteriore del cranio.

LE RINOSINUSITI
Le infiammazioni dei seni paranasali sono le rinosinusiti. Queste, come tutti i fenomeni infiammatori, si distinguono in acute e croniche. Le rinosinusiti acute sono rare, sono caratterizzate dal dolore e spesso accompagnate da malessere e febbre. Quasi sempre sono causate da germi sensibili agli antibiotici e sono limitate ad uno o due seni paranasali, pertanto il dolore è ben localizzato. Esistono anche forme di pansinusite (coinvolgimento di tutti i seni paranasali) che provocano cefalee molto dolorose. Le infiammazioni acute dei seni paranasali possono svilupparsi unitamente ad una rinite acuta. Oggi con l’utilizzo di molti antibiotici si riesce ad avere una guarigione completa. Non in tutti i casi c’è la guarigione, ma si osserva il passaggio da rinosinusite acuta a quella cronica.
Piuttosto diverse sono le rinosinusiti croniche. Non è facile individuare la causa. Per spiegare la cronicizzazione di queste infiammazioni si pensa al continuo inalare di aria mista a polvere, allo smog e alle brusche variazioni climatiche. Una causa di non trascurabile di rinosinusite cronica sono alcune attività che espongono il lavoratore ad inalare polveri, oppure colpiscono persone costrette a lavorare in ambienti freddi e umidi.

LA DIAGNOSI DI RINOSINUSITE
L’otorinolaringoiatra è lo specialista idoneo a valutare il naso, le fosse nasali e i seni paranasali. Egli è in grado di esplorare le fosse nasali con una visione diretta (rinoscopia anteriore) ed anche con l’utilizzo di fibre ottiche. Gli strumenti a fibre ottiche sono molto diffusi, possono essere rigidi o flessibili. La scelta dello strumento da usare va fatta dopo una rinoscopia tradizionale, perché se la fossa nasale è molto stretta questi strumenti passano con difficoltà, oppure non passano affatto, pertanto si corre il rischio di provocare dolore. Lo specialista non deve fare manovre dolorose e deve astenersi da eseguire indagini endoscopiche in pazienti non collaboranti. Il rischio è quello di non riuscire a fare l’esame e il paziente avrà un pessimo ricordo, che inciderà su eventuali esplorazioni future.
I vantaggi delle fibre ottiche sono l’esplorazione con una visione ingrandita e la possibilità di vedere zone non esplorabili direttamente, questo perché molte ottiche consentono una visione angolata.
E’ importante valutare le condizioni della mucosa, le ipertrofie e le secrezioni patologiche. Nei casi di produzione di materiale secretivo sono visibili gli orifizi da cui fuoriesce e pertanto in alcuni casi si riesce a fare una localizzazione esatta del seno paranasale affetto da sinusite.
Un esame molto importante per lo studio delle fosse nasali e dei seni paranasali è la TAC. Già una TAC senza contrasto consente di vedere molto bene quelle parti che con la visita e con la fibrorinoscopia non sono visibili. La TAC sfrutta come contrasto l’aria, infatti una buona ventilazione dei seni paranasali è indicativa per un buon funzionamento degli stessi. Negli esami tomodensitometrici l’aria è nera e le ossa sono bianche, pertanto questa diversità cromatica si rivela essenziale. Le possibilità diagnostiche di una TAC a sezioni sottili sono molto elevate.

LA DIFFICOLTA’ RESPIRATORIA NASALE
Una buona respirazione nasale consente un’ottima ventilazione dei seni paranasali e una valida respirazione polmonare. Molte persone, soprattutto quelle che non fanno particolari sforzi fisici, pensano di respirare bene anche se hanno il setto deviato oppure i loro turbinati sono di notevoli dimensioni. La respirazione nasale non va valutata nei momenti di riposo, ma si deve considerarla durante gli sforzi fisici e si deve sempre pensare a lunghi periodi di vita. Negli anziani è molto positivo poter respirare adeguatamente dal naso. Una buona pervietà respiratoria nasale consente che l’aria venga filtrata, depurata, riscaldata e umidificata in modo da diventare ottimale per la respirazione. Un naso perfettamente funzionante è la migliora garanzia per una buona respirazione polmonare.
Gli ostacoli alla respirazione nasale più frequenti sono le ipertrofie dei turbinati inferiori (figura 2), spesso associate alle deviazioni del setto. In questi casi la soluzione è quasi sempre chirurgica. Gli interventi correttivi sono interventi di elezione, cioè interventi che si fanno per migliorare una situazione, ma non per fronteggiare una necessità immediata. Negli interventi elettivi non si deve far correre al paziente alcun rischio operatorio, pertanto è bene eseguirli quando il soggetto è giovane o è in età matura. Sono sconsigliati in età avanzata. Ho sempre sostenuto che le persone non devono aspettare di essere anziani per chiedere ai medici una valutazione della loro respirazione nasale. Una visita otorinolaringoiatrica è sempre consigliata prima dei cinquant’anni. Nei casi di difficoltà respiratoria, se lo specialista suggerisce una soluzione chirurgica, è bene operare prima dei 60/65 anni.
Per migliorare la respirazione nasale e di conseguenza anche la ventilazione nei seni paranasali sono possibili terapie sia mediche che chirurgiche.
In commercio ci sono molti prodotti sotto forma di spray che contengono cortisonici e agiscono sulla componente infiammatoria, pertanto sono attivi solo sui turbinati. La loro azione è lenta e non sempre sono efficaci. Altri farmaci sono gli spray con vasocostrittori, questi agiscono riducendo il flusso sanguigno dei turbinati, hanno rapidità d’azione e sono apprezzati dai pazienti. Il vasocostrittore riduce il volume del turbinato e migliora la respirazione. Il rischio di questi prodotti è che la riduzione del turbinato è di breve durata, pertanto dopo alcune ore il paziente ritorna nella situazione iniziale. Col passare del tempo i benefici diminuiscono e in certi casi il soggetto utilizza lo spray di continuo. Il rischio è lo sviluppo di una ipertrofia medicamentosa dei turbinati che col passare dei mesi diventa resistente ai farmaci.
Le soluzioni chirurgiche sono parecchie e vanno valutate caso per caso. Una tecnica di recente introduzione che ha modificato notevolmente la chirurgia dei turbinati è la devascolarizzazione con radiofrequenze. E’ questo un intervento eseguibile in anestesia locale, della durata di circa 20 minuti e non prevede il tamponamento nasale. La tecnica consiste nell’introduzione di un elettrodo (uno strumento simile ad un lungo ago) che collegato ad apposito apparecchio crea una riduzione di volume del turbinato (figura 3). Il chirurgo usa questo strumento più volte fino a quando non ha ottenuto il risultato voluto. Tra i vantaggi della devascolarizzazione ricordo lo scarso sanguinamento e la possibilità di poterla usare a tutte le età: dagli adolescenti fino ai settantenni. Il risultato finale sono i turbinati più piccoli e un miglioramento della respirazione nasale (figura 4).
Se il setto è particolarmente deviato occorre pensare ad un intervento più complesso denominato settoplastica. Ovviamente se oltre alla deviazione del setto ci sono i turbinati ipertrofici si esegue settoplastica e devascolarizzazione turbinati in un’unica seduta chirurgica. In questi casi è necessaria l’anestesia totale e si prevede un ricovero di due o tre giorni.
Per coloro che, oltre alla deviazione del setto, hanno un naso che non apprezzano esteticamente è possibile eseguire con un unico atto operatorio un intervento denominato rinosettoplastica, con questo si correggono i dismorfismi della piramide, si raddrizza il setto nasale e si possono anche ridurre i turbinati.

LA RINOSINUSITE CRONICA POLIPOIDE o POLIPOSI NASALE
La poliposi nasale è una particolare forma di rinosinusite caratterizzata dalla presenza di polipi nelle fosse nasali. In questi casi la difficoltà respiratoria nasale è uno dei sintomi più precoci. Alcuni specialisti ritengono che la poliposi e la rinite allergica siano malattie correlate. Sicuramente sono presenti casi di poliposi nasale associati a manifestazioni allergiche, ma non sempre. La poliposi è una malattia benigna, le degenerazioni dei polipi verso la malignità sono estremamente rare. La rinosinusite cronica polipoide è una malattia che richiede un notevole impegno sul piano terapeutico. Come altre forme di rinosinusite la terapia può essere medica. Oggi sono in commercio numerosi spray nasali a base di corticosteroidi che portano a buoni risultati, anche se raramente sono definitivi.
La terapia più radicale è quella chirurgica. Il vero problema della rinosinustie cronica polipoide è che la base di impianto dei polipi non sono le fosse nasali, ma i seni paranasali. Quindi una estirpazione totale della malattia è difficile, pertanto in questi interventi esiste un alto rischio di recidiva. L’intervento che viene quasi sempre consigliato è un intervento in videoendoscopia che permette l’asportazione dei polipi e le aperture multiple dei seni paranasali. Questo intervento è noto con l’acronimo inglese FESS (Functional Endoscopic Sinus Surgery).
L’intervento di FESS è delicato, necessita di uno strumentario particolare e pertanto è eseguibile solo in cliniche adeguatamente attrezzate.

LE RNOSINUSITI ALLERGICHE
La rinite e la sua evoluzione verso i seni paranasali (rinosinusite allergica) è una malattia molto frequente. Si pensa che oltre il 10% delle persone abbiano malattie respiratorie di carattere allergico. Per allergia s’intende una reazione anomala di alcuni organi quando vengono in contatto con determinate sostanze (allergeni). Gli allergeni che più comunemente causano una rinosinusite sono gli acari della polvere, i pollini, i peli di alcuni animali domestici e alcuni cibi.
Il sintomo più tipico delle patologie respiratorie nasali allergiche è lo starnuto. Altri segni sono una rinorrea acquosa, una concomitante congiuntivite (arrossamento degli occhi), una diminuzione dell’olfatto (iposmia o anosmia), il prurito nasale e la cefalea. Il mal di testa conseguente ad una rinosinusite è spesso frontale o come se provenisse dal centro del cranio o dagli occhi. Nelle sinusiti mascellari il dolore è soprattutto facciale.
Le reazioni allergiche sono dovute sotto l’aspetto biochimico ad un incremento di particolari anticorpi della classe IgE. Questi anticorpi possono essere evidenziati attraverso test di provocazione, ma anche per mezzo di specifiche ricerche sul sangue.
La terapia è solo medica. I farmaci più usati sono i cortisonici e gli antistaminici. Purtroppo le allergie costituiscono un importante problema perché la vera terapia eziologica è eliminare l’esposizione agli allergeni, ma vivere sopra ai 2000 metri di quota o in una stanza dove non ci siano né polveri e né pollini sono soluzioni poco realizzabili in pratica.

NEOPLASIE DEL NASO E DEI SENI PARANASALI

I tumori del naso e dei seni paranasali sono malattie molto rare. Le statistiche riferiscono di un caso ogni centomila persone. Ritengo però che sia utile parlarne perché si è visto che i fumatori sono a rischio, ma sono ancor più a rischio alcune categorie di lavoratori. I sintomi soggettivi sono spesso molto sfumati e aspecifici come il percepire cattivi odori laddove non ci sono e minimi sanguinamenti dal naso.
Trattandosi di categorie ormai ben individualizzate è possibile fare attività preventiva e diagnosticare questi tumori ancor prima della comparsa dei sintomi. Si è osservato negli anni settanta che i lavoratori del legno e del cuoio sono più esposti. Analisi più precise hanno individuato che i lavoratori che utilizzano strumenti che producono segatura fine proveniente da legni duri sono quelli veramente esposti a questo rischio. I boscaioli e i lavoratori del cuoio lo sono in misura inferiore.
Studi clinici hanno osservato che le polveri fini inducono alterazioni nelle mucose nasali (fenomeno definito metaplasia) ed è sulle mucose così danneggiate che si può instaurare un tumore maligno. Come ho detto all’inizio si tratta di un rischio molto raro, ma verso il quale è possibile fare prevenzione.
La prevenzione di primo livello consiste in una visita otorinolaringoiatrica con rinofibroscopia. In questi pazienti si esegue una esplorazione completa del naso. Si osservano anche gli orifizi naturali dei seni paranasali e si guarda se ci sono secrezioni sospette. Un secondo livello prevede esami radiologici per lo studio dei seni paranasali e eventuali prelievi a scopo bioptico.
Le neoplasie maligne del naso, qualora dovessero presentarsi sono malattie importanti, dove la chemioterapia può fare poco e l’eradicazione chirurgica è spesso difficile. I tumori maligni sono molto diversi l’uno dall’altro per le caratteristiche istologiche e per la sede d’insorgenza. Di conseguenza la strategia chirurgica dovrà essere studiata caso per caso.
Negli ultimi anni si stanno diffondendo visite otorinolaringoiatriche preventive per i lavoratori a rischio. Queste visite le ritengo veramente importanti perché consentono di poter fare una diagnosi precoce dei tumori maligni del naso e dei seni paranasali; in questo modo sarà possibile sottoporre i pazienti ad intervento chirurgico quando la neoformazione è ancora di piccole dimensioni.
Le rinosinusiti, intendendo tutte le malattie del naso e dei seni paranasali, sono un argomento specialistico molto interessante perché è in continua evoluzione e perché i sanitari hanno a disposizione diverse soluzioni terapeutiche. In questi casi è importante l’esperienza e la capacità del medico nel saper consigliare il trattamento più adatto al paziente che ha di fronte.

Dott. Carlo Govoni
Specialista in otorinolaringoiatria
Chirurgia rinosinusale presso Clumbus Clinic Center – via Buonarroti, 48 – Milano
e Hesperia Hospital – via Arquà, 80 – Modena.
Tel. 3358040811

http://www.carlogovoni.it

Il priapismo

Il priapismo è un raro disturbo caratterizzato dalla persistenza per più di 4 ore di un’erezione peniena massimale, in assenza di alcuno stimolo sessuale. La sua denominazione deriva dal dio della mitologia greca e romana “Priapo”, noto simbolo di potenza sessuale maschile e fertilità.

Risulta estremamente importante classificare il priapismo in 3 differenti categorie:
(1) Basso flusso o ischemico
(2) Intermittente o “stuttering
(3) Alto flusso o non ischemico

1. Il priapismo a basso flusso raccoglie più del 95% di tutti gli episodi di priapismo. Viene definito come una sindrome compartimentale localizzata a livello dello 2 strutture tubulari erettili del pene, detti corpi cavernosi. Il priapismo a basso flusso è nella maggior parte dei casi di tipo “idiopatico”, ovvero senza alcuna chiara causa sottostante. Tuttavia, può essere associato a malattie ematologiche, all’assunzione di droghe od alcool, a patologie tumorali o neurologiche ed infine all’utilizzo non corretto di farmaci utilizzati nella gestione del deficit erettile (orali o più frequentemente iniettivi). Va tuttavia chiarito che i farmaci utilizzati oggi giorno, sia di tipo orale, topico o iniettivo, godono di un altissimo profilo di sicurezza, soprattutto quando correttamente gestiti da uno specialista uro-andrologo.
Il priapismo a basso flusso viene supportato da un’alterazione patologica dei normali meccanismi microvascolari che inducono la fisiologica detumescenza del pene dopo un evento erettile. Ciò comporta un’erezione persistente, con la mancanza di ricircolo sanguigno, che induce un progressivo danno ischemico ai tessuti cavernosi, per mancanza di un’adeguata ossigenazione. Tale danno risulta reversibile nelle prime ore dall’insorgenza dell’evento patologico, ma risulta del tutto irreversibile a distanza di 48-72 ore. La fisiopatologia del priapismo sottolinea pertanto l’importanza di una diagnosi precoce, al fine di scongiurare danni irreversibili che potrebbero compromettere la potenza sessuale del paziente.
Quali sono pertanto i segni caratteristici di un episodio di priapismo a basso flusso?
Un’erezione persistente, per oltre 5-6 ore, in assenza di alcuno stimolo sessuale, spesso dolorosa.
Come comportarsi nel sospetto di un episodio di priapismo?
Recarsi al pronto soccorso più vicino, per eseguire una visita urologica specialistica e, nel caso di una conferma diagnostica, ricevere le cure più opportune in modo tempestivo.
Come viene risolto un episodio di priapismo?
La gestione, competente allo specialista uro-andrologo, prevede l’aspirazione del sangue bloccato all’interno dei corpi cavernosi, il lavaggio con acqua e bicarbonato o l’iniezione di farmaci vasocostrittori (in particolare la fenilefrina). Nei casi refrattari ad un trattamento conservativo, solitamente con durata > 48-72 ore, la gestione del priapismo diventa chirurgico.
La detumescenza può essere pertanto raggiunta con l’esecuzione di uno “shunt”, ovvero la creazione di un tragitto artificale intra-penieno che faciliti il deflusso del sangue stagnante nei corpi cavernosi verso strutture anatomiche circostanti (nella maggior parte dei casi verso il glande). Lo “shunt” può tuttavia non essere efficace in tutti i casi, soprattutto se il priapismo è durato > di 48-72 ore. Inoltre, esiste un concreto rischio, in seguito a manovra di “shunt”, di sviluppare un grave disfunzione erettile. In questi casi, la soluzione definitiva, risulta l’impianto di una protesi peniena, ovvero l’inserimento all’interno del pene di un device meccanico che garantisca al paziente una rigidità dell’asta sufficiente alla penetrazione. L’impianto protesico deve essere eseguito in tempi brevi, in modo da preservare dei tessuti cavernosi elastici e facilmente manipolabili. Effettivamente, l’impianto protesico differito (oltre 1 mese) in un paziente con pregresso episodio di priapismo, può diventare estremamente complicato, rendendo necessario, in casi estremi, la completa ricostruzione dei corpi cavernosi, completamente obliterati da un processo di estesa fibrosi.

2) Il priapismo intermittente o “stuttering” è caratterizzato da uno schema ricorrente, ovvero da erezioni prolungate, di solito meno di 3 ore, più frequentemente notturne, che diventano progressivamente più dolorose, a seconda della durata dell’episodio. Possono esitare in episodi acuti di priapismo a basso flusso, anche in maniera ricorrente. Possono pertanto causare un progressivo deterioramento della funzione erettile e, ovviamente, forte disagio psico-sessuologico. Il priapismo intermittente si manifesta più frequentemente nei pazienti affetti da un disturbo ematologico detto “anemia falciforme”.
La gestione cronica di questo disturbo avviene attraverso l’impiego di diverse classi di farmaci (ad azione ormonale o ad azione vascolare), con il principale obiettivo di ridurre il numero di episodi, soprattutto di tipo acuto a basso flusso. Nei casi refrattari a qualsiasi terapia, può essere indicato il posizionamento di una protesi peniena.

3) Il priapismo ad alto flusso, al contrario dei precedenti, è secondario ad un traumatismo coinvolgente le arterie dei corpi cavernosi, che inducono la creazione di una “fistola”, ovvero di una comunicazione patologica fra l’arteria e il corpo cavernoso. Questo evento induce pertanto un’erezione prolungata sostenuta da sangue arterioso, pertanto ben ossigenato. Queste caratteristiche rendono tale forma di priapismo, non pericoloso per la salute dei tessuti erettili, esitando pertanto in una gestione di tipo differibile. Il trattamento, nei casi in cui l’episodio non esiti in una remissione spontanea, consiste in un embolizzazione selettiva della fistola eseguita dai radiologi interventisti con approccio mini-invasivo.

In conclusione, il priapismo, sebbene sia una patologia rara, può, se non opportunamente diagnosticato e trattato, compromettere in maniera anche definitiva la funzione erettile dei pazienti. La gestione sia acuta che cronica, va affidata a uro-andrologi, possibilmente in centri di riferimento, in modo da garantire un servizio di qualità basato sulle più recenti evidenze scientifiche.

Paolo Gontero
Direttore Clinica Urologica, Ospedale Molinette, Università degli Studi di Torino

Marco Falcone
Scuola di specializzazione in Urologia, Università degli Studi di Torino

LA PERIARTRITE DI SPALLA

La limitazione dolorosa dei movimenti della spalla veniva in passato indicata generalmente come periatrite. Nella seconda metà del secolo scorso, studi legati alla medicina dello sport, ed in particolare al trattamento delle lesioni procurate dagli sport di lancio e soprattutto al migliore inquadramento diagnostico ottenuto direttamente con la tecnica artroscopica hanno permesso di suddividere la “periartrite” in vari capitoli di patologia della spalla: -la sindrome da conflitto subacromiale, -la lesione della cuffia dei rotatori, -l’instabilità e la lussazione, -la capsulite adesiva, -l’artrosi della spalla, oltre naturalmente alle fratture osteocartilaginee.

La spalla è un complesso articolare molto dinamico: deve permettere all’arto superiore ed alla mano di muoversi nello spazio con la massima libertà e rapidità. E’ formata infatti da più strutture ossee: testa dell’omero, scapola, clavicola, superficie toracica e da un sistema neuromuscolare estremamente organizzato per consentire tutti i tipi di movimento.
E’ quindi la perdita della complessa coordinazione motoria del dinamismo della spalla che innesca meccanismi di lesione a carico delle diverse strutture ed indirizza verso una patologia specifica. I recettori capsulolegametosi e muscolotendinei modulano e controllano il movimento; per questo l’allenamento sportivo ma anche l’esercizio motorio quotidiano rappresentano una risorsa di stabilità e sicurezza ma anche una forma di sovraccarico se le strutture della spalla iniziano a presentare indebolimenti o lesioni e particolarmente dopo affaticamento.

La sindrome da conflitto sottoacromiale è causata dal risalimento della testa omerale contro il tetto osseo dell’acromion-claveare. La riduzione di questo spazio crea usura da conflitto delle strutture capsulari articolari che sono rinforzate dalla cuffia dei muscoli rotatori adibiti al movimento della testa omerale e costituiti da 4 unità muscolotendinee: sovraspinoso, sottospinoso, sottoscapolare e piccolo rotondo. La cuffia tende ad usurarsi ed in particolar modo il tendine del muscolo sovraspinoso associato ad una reazione con ispessimento della borsa di guarnizione ed all’usura del tendine del capo lungo del muscolo bicipite. Oltre al sovraccarico ripetuto anche episodi acuti traumatici dovuti a caduta con braccio allargato a protezione del corpo od a braccio esteso possono lesionare la cuffia dei rotatori ed i legamenti che proteggono la stabilità della spalla.
Il movimento della spalla si riduce sia direttamente per la lesione della cuffia che per il dolore causato dalla borsite. Il dolore può presentarsi acutamente, talora durante la notte nella regione anteriore o laterale della testa dell’omero e talora associato ad aumento della temperatura locale. Il movimento di alzare il braccio e ruotare la spalla si riduce notevolmente fino anche a bloccarsi.
Un accurato esame clinico associato ad esami strumentali (Rx, ecografia, risonanza magnetica) permettono di chiarire il tipo ed il grado di lesione e valutare il trattamento che in reazione alla gravità sarà di tipo riabilitativo o chirurgico artroscopico.
La tecnica artroscopica, cioè con l’ausilio di fibre ottiche mediante piccoli accessi chirurgici, ha il vantaggio, rispetto alla chirurgia aperta convenzionale, di offrire una visione più ampia e dinamica e di essere meno invasiva senza danneggiare strutture muscolari e capsulari importanti.
La rieducazione e la terapia fisica locale sono fondamentali per il recupero delle lesioni iniziali e meno gravi e richiedono costanza e precisione di esecuzione sotto il controllo e guida del fisioterapista.

L’instabilità e la lussazione di spalla possono essere di tipo traumatico o di tipo idiopatico, cioè senza una causa accidentale importante ma legata alla costituzione eccessivamente elastica del soggetto nelle strutture articolari.
Nel caso delle lussazioni traumatiche è molto importante il trattamento che viene eseguito dopo il primo episodio di lussazione, in quanto un insufficiente inquadramento e cura della lesione può portare al verificarsi di nuovi episodi di sublussazione o lussazione che diventa così abituale con aggravamento della instabilità e dei sintomi dolorosi.
Gli accertamenti con immagini di Risonanza magnetica servono a far diagnosi precisa sulla lesione del cercine glenoideo, dei legamenti e della capsula che insieme stabilizzano la testa dell’omero e così programmare la riparazione in artroscopia con suture e reiserzioni dirette o mediante l’uso piccole viti o ancorette di fissaggio.
Le persone con lassità costituzionale della spalla devono, in caso di traumi o comparsa di disturbi dolorosi da sovraccarico, dedicarsi soprattutto alla fisioterapia e rieducazione della articolazione senza alterare chirurgicamente la struttura particolarmente elastica della propria spalla.

La capsulite adesiva o spalla congelata determina la perdita della mobilità attiva e passiva della spalla associata al progressivo aumento del dolore nel tentativo di movimento e poi anche a riposo. E’ dovuto al progressivo crearsi, su base infiammatoria, di aderenze nella capsula articolare con la testa omerale riducendone lo spazio di scorrimento soprattutto nel recesso posteroinferiore.
Molto spesso non vengono riferiti traumi precedenti all’insorgenza dei sintomi di dolore e rigidità. Talvolta sono predisposti coloro che sono in trattamento per malattie endocrine o dismetaboliche. Anche traumi modesti associati ad un quadro di osteoporosi possono creare una marcata reazione edematosa della testa omerale e reattiva della capsula e della sinovia della articolazione.
La valutazione clinica è naturalmente molto importante per fare precocemente diagnosi e indirizzare al trattamento medico del dolore localizzato con infiltrazioni ecoguidate e farmaci per via generale ed alla tempistica della riabilitazione che non va mai eseguita in fase acuta. In questi casi non è indicato il trattamento chirurgico artroscopico se non per il trattamento degli esiti della malattia e della rigidità.

L’artrosi della spalla si presenta con una progressiva perdita della mobilità articolare associata ad episodi dolorosi. In genere fa seguito ad episodi traumatici importanti di frattura e di lussazione articolare che alterano il profilo della testa dell’omero e ne determinano la sua risalita contro il tetto osseo acromion-claveare. In tal caso è importante valutare la eventuale lesione associata della cuffia dei rotatori e la buona funzione dei tessuti muscolari residui, mediante la Risonanza magnetica, dopo aver eseguito le tradizionali radiografie.
Molta attenzione deve essere dedicata alla rieducazione sopratutto nelle persone più attive per verificare il grado massimo di risultato ottenibile. Va associata a terapia medica generale per la cura di una concomitante osteopenia od osteoporosi e di flogosi adesive.
In casi selezionati può essere indicata la terapia locale infiltrativa intrarticolare con acido ialuronico ed in casi particolari con il concentrato piastrinico (PRP) .
Nei casi di rigidità dolorosa più marcati si deve valutare la necessità del trattamento chirurgico che consiste nella sostituzione protesica della articolazione della testa omerale e della glena scapolare con protesi diretta od inversa .

L’acido ialuronico è il principale costituente della cartilagine e del liquido sinoviale che la nutre e la lubrifica. Se somministrato per infiltrazione articolare migliora lo scorrimento articolare e la protezione del tessuto cartilagineo.
I prodotti con peso molecolare medio-alto sono quelli che sembrano dare migliori risultati, reintegrando la riduzione di formazione naturale di glicosaminoglicano, come avviene in caso di artrosi.
Il concentrato piastrinico PRP (Platelet Rich Plasma) viene prodotto dal sangue e contiene le proteine dei fattori di crescita di vari tessuti fra cui il tendine, il muscolo e la cartilagine ed anche le citochine che attivano i processi riparativi.
Dal prelievo di circa 40 cc di sangue venoso si ottiene, con sola centrifugazione e concentrazione e nessuna manipolazione del sangue, un concentrato da cui si può isolare la parte dedicata alla crescita del tessuto cartilagineo, che può essere immediatamente infiltrato nelle zone di cartilagine danneggiata, o conservarlo in provetta a -30°.
La zona di lesione tendinea o muscolare o cartilaginea deve essere circoscritta e non su due versanti articolari contemporaneamente per poter offrire le maggiori possibilità di riparazione del tessuto articolare o periarticolare della spalla.

In conclusione, le varie patologie della spalla sono tutte legate dai sintomi del dolore e della limitazione del movimento. Risulta sempre più importante il concetto di sovraccarico articolare: stabilire il limite tra carico di attività e di allenamento e sollecitazione dannosa non è facile finchè non compaiono il dolore e la ridotta mobilità.
Dall’analisi accurata di questi sintomi e nel rispetto della biomeccanica articolare e dei meccanismi biologici di riparazione dei tessuti si deve creare una sinergia tra paziente, medico e fisioterapista per arrivare prima di tutto alla diagnosi precoce e quindi al migliore e piu efficace trattamento possibile.