Andrologia

Dolore testicolare: cause e rimedi.

 

Il dolore testicolare rappresenta un’evenienza clinica abbastanza frequente che può riguardare soggetti maschi di qualunque età, anche se si verifica più frequentemente nei giovani. Si dovrebbe più correttamente parlare di dolore scrotale (o algie scrotali) dato che i sintomi possono riguardare non solo i testicoli ma anche altre strutture presenti nello scroto (o borsa scrotale). All’interno dello scroto si trovano infatti anche la parte iniziale delle vie spermatiche (epididimo e vasi deferenti), le varie fasce che circondano i testicoli, diverse strutture vascolari, nervose e muscolari.

Da un punto di vista clinico è fondamentale distinguere il dolore scrotale in base alla modalità di insorgenza:

Si parla di dolore testicolare acuto (o “scroto acuto”) quando l’insorgenza dei sintomi avviene in modo rapido rispetto ad una precedente situazione di completo benessere. In questi casi il dolore è solitamente molto intenso.

Il dolore scrotale cronico ha invece un esordio subdolo: può iniziare come un semplice fastidio e avere nel tempo periodi di remissione e ricadute. Si tratta quindi di un dolore meno intenso che solitamente spinge i pazienti a rivolgersi al medico anche dopo parecchio tempo dall’insorgenza.

Un’altra importante distinzione riguarda la sede responsabile dell’insorgenza dei sintomi:

Il dolore viene definito locale o diretto quando la patologia si verifica a carico di una delle strutture presenti all’interno dello scroto.

un dolore riflesso o indiretto si verifica quando le sensazioni dolorose vengono riferite allo scroto in seguito a irradiazione nervosa in corso di problematiche che riguardano primitivamente zone anatomiche esterne allo scroto.

Il dolore scrotale acuto è molto spesso un dolore locale mentre il dolore cronico può frequentemente essere dovuto ad irradiazione.

Lo scroto acuto è una problematica importante che deve essere sempre valutata dallo specialista urologo in tempi molto rapidi: di solito si riesce ad individuare la causa dell’origine dei sintomi e intraprendere il corretto trattamento per arrivare ad una completa risoluzione e guarigione.

Il dolore scrotale cronico, al contrario, rappresenta una condizione clinica più complessa da inquadrare che spesso comporta notevole angoscia nel paziente e una certa frustrazione nel medico: non sempre si riesce a capire e identificare la causa dei sintomi e l’efficacia delle cure è sicuramente inferiore.

Le cause dello scroto acuto:

Questi sono i quadri clinici più frequentemente responsabili di un dolore testicolare acuto:

La torsione testicolare

Si verifica come conseguenza di una rotazione del testicolo intorno al proprio asse con successiva compressione ed ostruzione dei vasi arteriosi responsabili dell’apporto di sangue al testicolo. La conseguenza è un’ischemia del parenchima testicolare che – in caso di mancata risoluzione – può portare dopo alcune ore ad una necrosi irreversibile del testicolo. Colpisce tipicamente soggetti adolescenti o giovani adulti; l’insorgenza può essere spontanea oppure secondaria a piccoli traumi, per esposizione al freddo, durante i rapporti sessuali o l’attività sportiva.

Il testicolo torto risulta tipicamente spostato verso il canale inguinale, poco mobile lungo il suo asse ed estremamente doloroso alla palpazione. In questi casi è fondamentale essere sottoposti in tempi rapidi a valutazione urologica per arrivare velocemente alla diagnosi e all’intervento chirurgico in urgenza di detorsione e fissazione testicolare. Quando l’intervento avviene entro 6 ore dall’esordio del dolore la possibilità di recupero è vicina al 100%. Tale percentuale scende al 20-50% se l’operazione viene eseguita dopo 12 ore ed è vicina allo 0% dopo 24 ore. L’intervento eseguito tardivamente – una volta constatata la necrosi del parenchima (anche dopo derotazione) – comporta l’asportazione del testicolo.

In alcuni casi può avvenire una detorsione spontanea del testicolo con immediata remissione della sintomatologia dolorosa. In questi casi non è più ovviamente necessario l’intervento correttivo urgente ma resta importante una valutazione urologica per valutare il rischio di una recidiva.

La torsione dell’appendice testicolare o epididimaria

Si verifica quando la torsione non riguarda il testicolo ma una sua appendice. A livello del polo superiore del testicolo è presente l’appendice testicolare (o “idatide del Morgagni”); sulla testa epididimaria è presente una struttura analoga, l’appendice dell’epididimo. Si tratta di dotti residuati dallo sviluppo dell’apparato genitale che si formano durante la vita embrionale e che non hanno alcuna funzione dopo la nascita. La torsione di una di queste appendici può causare un quadro clinico acuto molto simile a quello della tersione testicolare e caratterizzato da dolore molto intenso. La situazione è tuttavia non pericolosa per il parenchima testicolare e non richiede alcun intervento. In alcuni casi può essere difficile riconoscere l’origine appendicolare del dolore (soprattutto quando non c’è la possibilità di eseguire un’ecografia in tempi brevi): in queste situazioni di dubbio – per non correre rischi – si può lo stesso decidere di eseguire un intervento chirurgico esplorativo.

L’epididimite acuta

Si tratta di un’infezione localizzata all’epididimo, una struttura anatomica adiacente al testicolo sede della prima parte delle vie spermatiche. Nella maggior parte dei casi sono coinvolti batteri provenienti dalle vie urinarie o trasmessi durante i rapporti sessuali. Spesso l’infiammazione rimane localizzata al solo epididimo; in alcuni casi può estendersi al vicino parenchima testicolare: si parla in questi casi di “orchi-epididimite”.

Il quadro clinico è caratterizzato spesso da gonfiore, rossore e da un intenso dolore alla palpazione, in alcuni casi difficilmente distinguibile da quello della torsione. Possono essere presente febbre e/o disturbi urinari quando l’epididimite è secondaria ad un’infezione urinaria. Può riguardare soggetti giovani ma anche adulti e anziani.

Il trattamento è basato sulla terapia medica antibiotica e anti-infiammatoria che può solitamente essere eseguita a domicilio. Solo in rari casi – come quando è presente febbre alta – diventa necessario il ricovero.

L’orchite acuta

E’ un’infezione che colpisce primitivamente il testicolo, in cui gli agenti patogeni arrivano di solito per via ematica. Possono essere implicati batteri ma più frequentemente l’origine è virale, come in caso di infezione da virus della parotite. In questi quadri oltre al dolore acuto è presente gonfiore del testicolo (“tumefazione”). In presenza di virus – non essendo disponibile un trattamento anti-virale – la terapia sarà solo sintomatica. E’ importante rivalutare a distanza di tempo la situazione locale, dato che in alcuni casi il quadro può successivamente evolvere in un’atrofia testicolare.

I traumi

Un quadro scrotale acuto può verificarsi in seguito ad un trauma testicolare. In questi casi è importante verificare l’integrità del testicolo ed escludere la presenza di importanti ematomi. Tranne in casi particolari in cui può essere necessario un intervento in urgenza, di solito queste situazioni tendono a guarire spontaneamente nel tempo.

I tumori del testicolo

Nella maggior parte dei casi un tumore testicolare determina la presenza di un nodulo al testicolo completamente indolore (anche durante la palpazione). Solo in casi molto rari può avvenire un evento vascolare acuto all’interno del tumore (come un’emorragia o un’ischemia) tale da provocare dolore. Può essere un dolore acuto o sub-acuto oppure anche un dolore più leggero con andamento cronico e recidivante. Una volta diagnosticata la presenza del tumore bisognerà eseguire l’intervento di asportazione del testicolo (“orchi-funicolectomia”) e gli accertamenti clinici necessari per la stadiazione della malattia.

La calcolosi ureterale

Molto spesso durante una colica renale dovuta alla presenza di un calcolo nelle vie urinarie il dolore – oltre a riguardare il fianco e la fossa iliaca – può irradiarsi alla regione inguinale e scrotale. In alcuni casi il dolore scrotale può essere predominante o addirittura l’unico sintomo: in queste situazioni il quadro clinico richiede una diagnosi differenziale con le altre cause di scroto acuto. La palpazione scrotale risulterà tuttavia normale (non determina un incremento del dolore e non permette di riscontrare gonfiore e tumefazoni). Si tratta pertanto di un quadro scrotale acuto in cui il dolore non è locale ma riflesso.

Valutazione del paziente con scroto acuto:

E’ già stato sottolineato come un quadro di dolore scrotale acuto richieda una valutazione specialistica immediata. Questo è importante per escludere la presenza di una torsione testicolare, condizione patologica in grado di portare alla perdita del testicolo se non identificata e risolta in tempi brevi.

La visita urologica con l’esame obiettivo dei genitali esterni può non essere dirimente: condizioni diverse responsabili dello scroto acuto possono determinare infatti quadri clinici molto simili.

Un esame strumentale fondamentale per valutare questi pazienti e in grado di riconoscere la causa del problema nella quasi totalità dei casi è l’ecografia scrotale con EcoDoppler. Questa indagine radiologica veloce e non invasiva permette infatti la precisa valutazione anatomica dei testicoli e degli epididimi e soprattutto la loro vascolarizzazione. In presenza di torsione testicolare la vascolarizzazione del testicolo risulta infatti assente mentre sarà al contrario incrementata in presenza di epididimiti e/o orchiti.

Dato che non tutte le unità di Pronto Soccorso hanno a disposizione 24 ore su 24 personale radiologico dedicato all’esecuzione di questo esame e dato che solo una minoranza di urologi è in grado di eseguirlo personalmente, può succedere che in situazioni di diagnosi dubbia venga deciso di eseguire comunque un intervento scrotale esplorativo in urgenza. Anche se si tratta di un intervento poco complesso e gravato da poche complicanze, in alcuni casi l’intervento può rivelarsi del tutto inutile.

Le cause del dolore testicolare cronico:

Tutti quadri patologici responsabili del dolore testicolare acuto possono anche essere responsabili di situazioni cliniche meno intense caratterizzate da dolore subacuto o in alcuni casi cronico:

- Situazioni di torsione testicolare seguita da detorsione spontanea con eventuali successive recidive (“torsione intermittente”).

- Quadri infiammatori (epididimiti o orchi-epididimiti) in cui la carica patogena è minore con conseguente dolore meno intenso e con esordio più lento.

- Tumori testicolari.

Altre cause di dolore testicolare cronico di tipo diretto possono essere:

Condizioni con accumulo di liquido all’interno dello scroto: si tratta di quadri in grado di determinare gonfiore scrotale solitamente indolore. In alcuni casi possono determinare disagi o lieve fastidi fino a situazioni di dolore comunque di bassa intensità. Tra queste situazioni rientrano:

Il varicocele: si tratta di un accumulo di sangue secondario a dilazione delle vene spermatiche in cui le valvole anti-reflusso non funzionano in modo corretto. Insorge tipicamente durante la pubertà e molto frequentemente (in più del 90% dei casi) riguarda il testicolo di sinistra. Se trascurato può causare – per motivi ancora non del tutto chiariti – problemi sulla produzione degli spermatozoi e quadri di ridotta fertilità.

L’idrocele: è un accumulo di siero che si viene a formare tra il testicolo e la fascia che lo avvolge (la “tonaca vaginale”). Può essere congenito (presente alla nascita) oppure secondario ad un’infezione epididimaria o testicolare o a un trauma. In molti casi la causa rimane sconosciuta.

Lo spermatocele: si tratta di cisti contenenti siero (o cellule spermatiche morte) localizzate nel testicolo, nell’epididimo o a livello del funicolo spermatico.

La condizione di ipermobilità testicolare: è una situazione in cui uno o entrambi i testicoli tendono a risalire verso il canale inguinale con eventuali episodi di “sub-torsione”. E’ una condizione abbastanza frequente che può predisporre alla vera torsione testicolare.

Situazioni con danno dei nervi scrotali (“fibrosi perineurale”) come complicanza di interventi chirurgici scrotali (come la vasectomia, l’idrocelectomia, l’orchiectomia, l’ectomia di cisti scrotali, ecc). Si tratta fortunatamente di complicanze molto rare della chirurgia scrotale o inguinale.

Come detto in precedenza il dolore scrotale può essere abbastanza frequentemente dovuto all’irradiazione dello stimolo doloroso verso lo scroto in presenza di patologie a carico di organi extrascrotali. In questi casi le strutture contenute nello scroto risultano perfettamente normali e indenni da qualunque problematica patologica.

Le principali cause di dolore testicolare cronico riflesso (o indiretto) sono:

La prostatite cronica e il dolore pelvico cronico: un quadro flogistico cronico che riguarda la prostata e/o la pelvi – spesso non dovuto ad una causa infettiva – in cui oltre a disturbi urinari e fastidi in regione ipogastrica e perineale possono essere presenti dolori testicolari ad andamento cronico.

Gli ascessi perianali e altre problematiche infiammatorie acute a carico della regione anale.

L’ernia del disco a livello dorso-lombare: si tratta di protrusioni del disco intervertebrale con conseguente compressione delle radici nervose lombari. Se la compressione riguarda le radici dei nervi coinvolti nell’innervazione testicolare può determinare dolore testicolare cronico.

L’ernia inguinale: è una protrusione nel canale inguinale di strutture anatomiche normalmente contenute nell’addome (come l’intestino o aree anatomiche adiacenti). A livello inguinale l’ernia può determinare la compressione di strutture nervose o vascolari di pertinenza scrotale con successiva insorgenza di dolore testicolare riflesso.

La pubalgia: rappresenta una condizione infiammatoria / irritativa dei tendini di alcuni muscoli con inserzione sull’osso pubico (in particolare il muscolo adduttore). Tra i vari disturbi che possono essere presenti nei pazienti con pubalgia (come fastidi a carico della regione addominale, inguinale e a livello della coscia) rientra anche un dolore cronico irradiato al testicolo.

Aneurismi dell’arteria iliaca comune.

Calcoli dell’uretere (come già visto in precedenza).

Il dolore testicolare cronico idiopatico:

In altre situazioni (purtroppo non così rare) il dolore testicolare cronico non ha una causa dimostrabile: in questi pazienti (spesso di giovane età) è stata infatti esclusa la presenza di tutte le situazioni patologiche responsabile di dolore scrotale cronico sia diretto che riflesso. Si parla in questi casi di dolore “idiopatico”.

La genesi di questo tipo di dolore è dovuta probabilmente ad alterazioni dell’innervazione e in particolare ad una attività anomala dei recettori del dolore (“nocicettori”). In questi soggetti sembra sia presente una ridotta soglia di attivazione dei nocicettori, in grado di iniziare la conduzione dello stimolo doloroso anche in assenza di un vero e proprio stimolo nocivo (si parla di dolore “neurogeno” o “neuropatico”). I nocicettori, a livello scrotale, si trovano localizzati soprattutto a livello del funicolo spermatico e di una struttura muscolare che circonda il testicolo, il muscolo cremastere.

Valutazione del paziente con dolore testicolare cronico:

L’inquadramento di questi pazienti deve iniziare da un’approfondita anamnesi per la corretta valutazione del dolore testicolare (entità, durata, modalità di insorgenza…) e della presenza di eventuali sintomi associati, come disturbi urinari o dolori in altre regioni anatomiche.

L’esame obiettivo non deve limitarsi ai genitali esterni ma va esteso alla prostata, alla zona inguinale, alla regione pubica e quella anale e perineale. E’ sempre opportuno eseguire un esame delle urine con urinocoltura e spermiocoltura. L’ecografia scrotale può essere utile per escludere condizioni locali potenzialmente causa del dolore. In presenza di particolare sospetto clinico si potranno richiedere ulteriori accertamenti strumentali per riconoscere un eventuale problema di ernia discale o di calcolosi urinaria.

Una volta escluse tutte le possibili cause di dolore scrotale cronico diretto e riflesso, può essere ipotizzata la presenza di un dolore idiopatico di tipo neurogeno. Per confermare la diagnosi può essere effettuata un’infiltrazione del funicolo spermatico con anestetico locale e verificare l’immediata scomparsa del dolore.

Trattamento del dolore testicolare:

La terapia più efficace per la rimozione del dolore consiste nel trattamento diretto della patologia scatenante, sia essa scrotale o extra-scrotale. Come terapia di supporto possono essere utilizzati farmaci ad azione analgesica (“terapia sintomatica”).

La terapia sintomatica è invece l’unica possibile in caso di dolore idiopatico (in cui la causa non è nota). In queste situazioni si possono utilizzare farmaci capaci di agire sul sistema nervoso e in grado di ridurre il dolore di origine neuropatica. In casi estremi si può ricorrere ad interventi di microchirugia volti a realizzare una denervazione testicolare.

Conclusioni:

Il dolore testicolare rappresenta una condizione clinica abbastanza frequente che può avere molteplici cause. Si distinguono quadri con dolore intenso ad insorgenza acuta da altri con dolore più lieve ad andamento cronico o recidivante. Il dolore testicolare acuto – o scroto acuto – richiede sempre una valutazione specialistica immediata poiché può essere causato da situazioni potenzialmente pericolose per la salute del testicolo se non risolte velocemente. Anche il paziente con dolore testicolare cronico dovrà essere sottoposto ad una completa valutazione urologica volta a riconoscere eventuali cause scrotali del dolore oppure condizioni patologiche extra-scrotali con dolore testicolare irradiato. Il trattamento deve essere ovviamente rivolto ad eliminare la causa del dolore. Una terapia di supporto sintomatica-analgesica può essere associata alla terapia causale mentre rappresenta l’unica terapia possibile in caso di dolore idiopatico neurogeno.

 

Salute maschile? Buone notizie!

Ottime notizie per la salute dei maschi.

La cura migliore per il tumore alla prostata? Impossibile dare una risposta univoca ai quasi 43mila italiani che ogni anno si trovano a dover fare i conti con questa diagnosi. «Non esiste il trattamento giusto in assoluto – e gli Urologi   riuniti  a Milano hanno presentato i risultati della seconda fase del progetto PerSTEP, Percorso Teorico Pratico in ambito uro-oncologico -. Oggi possiamo decidere, insieme al paziente, qual è la soluzione migliore nel suo caso. Nuove sinergie farmacologiche e nuovi farmaci efficaci per i casi più avanzati e, per gli stadi più iniziali, la possibilità di rinviare (magari per sempre) qualsiasi cura tenendo i pazienti “sotto sorveglianza”.
 E’ fondamentale che gli tutti uomini, davanti a una diagnosi, siano informati su tutte le opzioni a disposizione e possano valutare bene i pro e i contro di ogni scelta – La multidisciplinarietà rappresenta un approccio vincente che vede urologi, oncologi, radioterapisti e psicologi lavorare insieme nell’ottica di una migliore gestione del paziente. Alcuni studi scientifici lo hanno dimostrato e i risultati ottenuti con il progetto PerSTEP lo confermano: gli esiti sono migliori se a seguire il malato c’è un team e non un singolo specialista».

Per ogni informazione è bene rivolgersi alla Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO)

TUMORE ALLA PROSTATA

Woman holding man's underwear

 

Il carcinoma prostatico rappresenta una delle tre cause principali di morte per neoplasia dopo i 60 anni e la principale dopo i 75 anni. In America, ogni anno, vengono diagnosticati 317.000 nuovi casi di tumore della prostata mentre nei paesi della Comunità Europea circa 85.000, con una mortalità rispettivamente di 41.000 e 35.000 pazienti. Fra i Paesi sviluppati il tasso di incidenza più elevato è stato osservato in Svizzera e poi in Scandinavia; solo il Giappone presenta una bassa percentuale di tumore prostatico; il suo tasso di incidenza sarebbe infatti pari ad un decimo di quello registrato nel Nord America. Dati recenti però, probabilmente a causai dell’occidentalizzazione dello stile di vita, dimostrano come l’incidenza del carcinoma prostatico sia in rapido aumento anche in questo Paese. Le Bermuda hanno il più alto tasso di mortalità per tumore prostatico: 29 decessi per 100.000 abitanti contro i 20 decessi della popolazione USA e Scandinava. In Italia, vengono registrati 15-20 decessi per 100.000 persone. Nella provincia di Genova, nel biennio 1980-81, il tasso di mortalità è stato molto elevato, raggiungendo quasi 26 decessi per 100.000 abitanti.

Patogenesi del tumore prostatico
L’origine del tumore della prostata è ancora molto controversa e non del tutto chiarita: già da molti anni, studi epidemiologici hanno permesso di identificare vari fattori predisponenti al carcinoma prostatico. Fra questi bisogna considerare i fattori dietetici, i fattori sociali e religiosi, i fattori razziali, i fattori ambientali, i fattori ormonali.

- fattori dietetici: numerosi studi hanno riportato un’associazione tra tumore della prostata e la dieta di tipo occidentale; in particolare sono state chiamate in causa le diete ad alto contenuto calorico, ricche di grassi e proteine animali. Nessuna apparente correlazione è stata invece riscontrata con il consumo di alcolici e l’abitudine al fumo
- fattori sessuali: alcuni autori hanno osservato che i pazienti con carcinoma prostatico, probabilmente per l’elevato livello di testosterone, abbiano avuto una attività sessuale più intensa e più precoce rispetto ad altri soggetti 
Una correlazione è stata trovata anche con le malattie veneree ed in particolare con la gonorrea: questo rapporto potrebbe essere spiegato ipotizzando che la gonorrea favorisca l’impianto di qualche virus oncogeno.
- fattori sociali e religione: studi condotti in USA hanno riportato tassi più elevati di carcinoma prostatico tra i Protestanti e i Mormoni, tassi più bassi per gli Ebrei ed intermedi per i Cattolici. Nessuna differenza di incidenza del carcinoma prostatico è stata registrata tra i diversi strati sociali della popolazione.
- fattori razziali: in alcune aree degli Stati Uniti, l’incidenza del carcinoma prostatico nella popolazione di colore è circa 80 volte più elevata rispetto ai bianchi.
- fattori ambientali: la prova più convincente della loro importanza proviene da studi sulle popolazioni immigrate; alcuni importanti studi hanno dimostrato come fra gli immigrati da regioni a basso rischio in quelle ad alto rischio vi sia un aumento 
dell’incidenza di carcinoma prostatico nelle generazioni successive.
- fattore ormonale:è sicuramente quello più importante; è ormai accertato che alti livelli serici di testosterone siano da considerare come i maggiori responsabili della crescita neoplastica della prostata: è stato dimostrato infatti che la somministrazione cronica di testosterone aumenta l’incidenza del tumore (Noble 1977) e, nell’80% dei casi, è stata documentata anche una elevata sensibilità ormonale (Sica 1979). 

Diagnosi del Cancro prostatico

a) quadri clinici

Il cancro della prostata, allo stadio iniziale, è spesso asintomatico e, nella maggior parte dei casi, i pazienti sono in buone condizioni generali. Da un punto di vista clinico il tumore della prostata può essere distinto in latente, incidentale, manifesto ed occulto. Il carcinoma latente viene scoperto casualmente in corso di autopsie ma per tutta la vita non ha mai dato alcun segno di sé: si pensa che esso sia 100 volte più frequente del tumore manifesto; il carcinoma prostatico incidentale (6% circa) viene diagnosticato dopo intervento di adenomectomia o resezione della prostata (TURP) per ipertrofia prostatica benigna oppure accertato con la biopsia prostatica (pTlc); il carcinoma manifesto è sempre evidenziabile e dà luogo a manifestazioni cliniche della malattia; infine quello occulto viene svelato dalla presenza di metastasi a distanza con obiettività prostatica negativa. Solo il 20% dei pazienti richiede una visita specialistica urologica per dolore osseo, pelvico o perineale, a causa della presenza della malattia metastatica. La maggior parte dei pazienti presenta una ostruzione prostatica di grado variabile che viene distinta in tre fasi.Nella prima fase è presente soprattutto uno stadio irritativo: la prostata è discretamente aumentata di volume, e il paziente riferisce una minzione difficoltosa con mitto debole. Nella seconda fase predominano i sintomi di ostruzione: il paziente è incapace di svuotare la vescica completamente, per cui ad ogni atto minzionale si verifica una sensazione continua di stimolo urgente alla minzione; in questo stadio sono frequenti infezioni e spesso insorgono sintomi aggiuntivi come aumento delle frequenze minzionali (pollachiuria) e presenza di sangue nelle urine (ematuria). La terza fase si instaura quando il paziente presenta una ritenzione completa di urina. La diagnosi di carcinoma prostatico viene effettuata mediante l’esplorazione rettale, la determinazione serica dell’Antigene Prostatico Specifico (PSA), l’Ecografia prostatica transrettale e dalla biopsia prostatica effettuata per vie transperineale oppure transrettale.

 

b) indagini diagnostiche

Indagini di Laboratorio
Possono confermare la diagnosi clinica di carcinoma della prostata.
Attualmente il parametro più importante da considerare è il dosaggio nel siero del PSA (prostate pecific antigen) della fosfatasi alcalina e fosfatasi acida prostatica. Il PSA è un enzima (protesasi) che viene secreto quasi esclusivamente dalla prostata; il suo dosaggio plasmatico costituisce un indicatore molto affidabile della presenza del carcinoma prostatico. I valori di PSA evidenziano una buona correlazione con il volume e lo stadio del tumore. Vengono considerati normali i valori di PSA compresi tra 0 e 4 ng/ml pensando anche che vi sono casi di tumore prostatico con un PSA inferiore a 4. Benché molto sensibile, il PSA manca però di specificità poiché un aumento delle sue concentrazioni seriche può essere riscontrato anche in pazienti affetti da ipertrofia prostatica benigna o da infezioni della prostata. Comunque livelli di PSA superiori a 10ng/ml, in assenza di prostatite o di manovre endoscopiche recenti, devono sempre far sospettare il cancro della prostata. 
Secondo gli orientamenti più recenti, il PSA viene considerato un indicatore dell’attività tumorale più sensibile della scintigrafia ossea e, per questo, più affidabile per monitorare la progressione del carcinoma prostatico nei pazienti con metastasi ossee.

 

Esplorazione rettale
L’esplorazione rettale rappresenta tuttora una metodica molto sensibile nella diagnosi di neoplasia prostatica, sviluppandosi questa, nella maggior parte dei casi, nella zona periferica della ghiandola. Il tumore sarà apprezzato come un nodulo circoscritto o diffuso (a secondo dello stadio della malattia) con una consistenza maggiore rispetto al restante tessuto prostatico: bisogna però tenere presente che un’area di maggiore consistenza non è sinonimo di tumore: essa potrà essere causata anche da una calcolosi prostatica o da una infiammazione cronica della prostata. Infine il referto palpatorio, in alcuni casi, può essere anche completamente negativo come nei carcinomi incidentali, nelle forme mute o nei tumori della zona parauretrale della prostata. Da tutto ciò ne risulta che l’esplorazione rettale è una metodica dotata di alta sensibilità (80% circa) e di bassa specificità in quanto il 35% circa dei noduli biopsiati, risultano negativi all’esame istologico.

 

Ecografia prostatica transrettale

Probabilmente non rappresenta una indagine migliore dell’esplorazione rettale, ma possiede l’indubbio vantaggio di costituire un ottimo mezzo di stadiazione.
All’ecografia il tumore viene descritto per lo più come un’area ipoecogena e periferica. Attualmente l’impiego di sonde a frequenza variabile tra 7.5 e 9 Mhz ha reso molto più agevole il riscontro di aree sospette o francamente ipoecogene ele sonde sono grado di guidare l’ago bioptico nel punto della lesione ogniqualvolta si renda necessaria la biopsia prostatica transrettale.
Con l’ecografia transrettale vengono abitualmente indagate anche le vescichette seminali, la vescica e tutte le altre strutture periprostatiche.
In questi pazienti risulta anche utile una ecografia addominale e renale per escludere eventuali dilatazioni di tratti urinari

Scintigrafia ossea
La scintigrafia ossea è un esame codificato per la stadiazione del cancro prostatico, poiché le ossa sono la sede più comune di metastasi, dopo i linfonodi pelvici. Il suo limite principale è comunque la sua aspecificità: infatti, qualsiasi condizione infiammatoria, post-traumatica o maligna delle ossa darà luogo ad un’area “calda”. In questi casi, per dirimere qualsiasi dubbio è necessario eseguire una radiografia mirata della zona di ipercaptazione. 
Attualmente si ritiene che la scintigrafia ossea sia utile nella valutazione iniziale dell’estensione metastatica della malattia, mentre risulterebbe meno affidabile per il monitoraggio della risposta terapeutica o della progressione del tumore: per esempio, rispetto al dosaggio del PSA, l’esame avrebbe una inerzia che spesso conduce ad un ritardo di diagnosi di progressione di circa un anno.

Rx delle ossa

Le radiografie della colonna vertebrale e del bacino possono individuare aree di osteolisi o di osteosclerosi che indicano metastasi da carcinoma prostatico

Biopsia prostatica

La diagnosi di carcinoma prostatico deve essere sempre confermata dalla biopsia che può essere eseguita per via perineale o per via transrettale. La prima richiede l’anestesia locale o regionale e viene effettuata con l’aiuto della ecografia transrettale che è in grado di guidare la punta dell’ago bioptico nella sede della lesione.

Entrambi i tipi di biopsie sono generalmente precedute e seguite da un breve ciclo di farmaci antibatterici o antibiotici, per evitare eventuali infezioni.

In caso di lesioni agevolmente palpabili, l’agobiopsia transrettale, con ago sottile guidato dal dito o dall’ecografia prostatica, conduce quasi sempre alla dimostrazione citologica del tumore.

Dopo aver accertato la presenza del tumore prostatico, prima di procedere a qualsiasi tipo di terapia è indispensabile effettuare, attraverso gli esami finora descritti, quella che in termini tecnici viene chiamata Stadiazione del tumore

 

Inquadramento Diagnostico del pazienti con Tumore Prostatico

ESPLORAZIONE RETTALE
SCINTIGRAFIA OSSEA
PSA
RX SCLELETRO E TORACE
ECOGRAFIA PROSTATICA
ECO ADDOMINALE O
TAC TRANSRETTALE
BIOPSIA PROSTATICA (ECOGUIDATA)

 

Stadiazione
La stadiazione clinica del carcinoma prostatico è un procedimento standard impiegato da urologi e oncologi per valutare l’estensione del tumore primitivo e determinare la presenza o assenza di metastasi.
A livello internazionale, attualmente sono utilizzati due sistemi di stadiazione: Il sistema A-D (Whitmore-Jewett) è più diffuso nel Nord America e in Italia per la sua semplicità (tab 4) Lo stadio A indica il tumore non palpabile; lo Stadio B un tumore palpabile ma confinato alla ghiandola prostatica, lo stadio C un cancro esteso al di fuori della ghiandola prostatica, infiltrante la capsula o le vescichette seminali; lo stadio D indica una neoplasia metastatizzata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

<>Nella maggior parte dei Paesi i tassi di mortalità sono comunque in aumento

 

 

 

 

Stadiazione del Carcinoma Prostatico secondo L’America Urological Society (AUS)

STADIO A: Carcinoma latente o incidentale
A1: monofocale limitato ad un lobo
A2: diffuso o multifocale
STADIO B: Tumore confinato alla prostata
B1: lesione di 1,5 cm di diametro o minore, in un solo lobo
B2: lesione superiore di 1,5 cm di diametro, coinvolgente più di un lobo, ma non si estende oltre la capsula prestata
STADIO C: Estensione del tumore oltre la capsula prostatica, senza metastasi
C1: invasione della capsula prostatica e solchi laterali
C2: coinvolgimento delle vescicole seminali
C3: Invasione della vescica (Collo e Trigono) e parete del retto
STADIO D: Malattia metastatica
D1: linfonodi regionali positivi
D2: metastasi viscerali e scheletriche
D3: Ormono dipendenza

 

Il secondo sistema TNM (Tumor, Nodes,Metastases)

viene adottato di più in Europa e considera separatamente le dimensioni della neoplasia, la presenza e l’entità delle metastasi linfonodali, nonchè la presenza di metastasi a distanza

Più del 95% dei tuòori maligni della prostata sono classificati come adenocarcinomi

La classificazione della citologia viene fatta in base ad una scala da 1 a 3 (Mostofi) ed in base al grado di differenziazione cellulare:
G l = elevata differenziazione cellulare
G2= moderata differenziazione
G3= scarsa differenziazione

 

Classificazione Clinica T.N.M.

Categoria “T” - Tumore Primitivo
T0 – nessuna evidenza di tumore primitivo
T1 – tumore incidentale non evidenziabile clinicamente
T1 a- tumore presente in meno del 5% del tessuto resecato
T1 b- tumore presente in più del 5% del tessuto resecato
T1 c- biopsia positiva in pazienti con livelli di PSA elevati
T2 – tumore clinicamente manifesto limitato alla prostata
T2 a- Il tumore interessa 1/2 lobo o meno
T2 b- Il tumore interessa più di mezzo lobo o un lobo
T2 c- il tumore interesse due lobi
T3 – tumore infiltrante la capsula prostatica ed oltre
T3 a- estensione extracapsulare monolaterale
T3 b- estensione extracapsulare bilaterale
T3 c- il tumore invade le vescicole seminali
T 4 – tumore fisso o invasione di strutture limitrofe oltre le vescicole seminali
T4 a- invasione del collo vescicale e/o dello sfintere esterno e/o del retto
T4 b- invasione dei muscoli elevatori e/o tumore fisso alla Parete pelvica

 

Categoria “N” - Linfonodi regionali
N0 – linfonodi regionali indenni
N1 – metastasi in un singolo linfonodo < 2 cm
N2 – metastasi in un solo linfonodo > 2 cm < 5 cm o a più linfonodi
N3 – metastasi in un singolo linfonodo > 5 cm


Categoria “M” - Metastasi a distanza
M0 – non segni di metastasi a distanza
M1 – segni di metastasi a distanza

Follow up del paziente oncologico

Terapia del Carcinoma Prostatico

follow up del paziente oncologico

MARKERS (PSA)

ERCOGRAFIA ADDOMINALE PROSTATICA
SCINTIGRAFIA OSSEA
RX TORACE

 

A- terapia chirurgica
La terapia ottimale per il carcinoma della prostata clinicamente localizzato è ancora oggi altamente controversa. Le possibilità terapeutiche includono la chirurgia, con la prostatectomia radicale, la radioterapia e l’approccio conservativo. Storicamente i pazienti erano scoraggiati a sottoporsi alla prostatectomia radicale a causa della significativa mortalità e complicanze legate alla procedura chirurgica. Negli ultimi anni, l’abilità da parte del chirurgo e le nuove acquisizioni di anatomia chirurgica hanno consentito di effettuare l’intervento con scarse complicanze e limitate riduzioni della qualità della vita. Noi, assieme alla maggior parte degli altri autori, riteniamo che la prostatectomia radicale, inequivocabilmente, rappresenti la più efficace terapia per il tumore confinato alla prostata, in quanto permette la guarigione completa della malattia. L’intervento prevede l’asportazione completa della prostata e di tutti i linfonodi regionali (iliaci e otturatori), che spesso possono essere sede di metastasi. Dopo gli studi di Walsh, questo tipo di intervento viene eseguito secondo la tecnica “Nerve sparing” e cioè preservando quelle fibre nervose (nervi erigendi) che permettono di ottenere l’erezione. 
Le più alte sopravvivenze si ottengono nei pazienti con le seguenti caratteristiche:
- malattia confinata alla prostata (stadio A2-B; T1-T2)
- grado di differenziazione cellulare medio-basso.
- étà inferiore a 70 anni.
Al di fuori di questi criteri di selezione è incerto che la chirurgia radicale o la radioterapia consentano di ottenere la cura completa del tumore.
Già da qualche anno però la chirurgia radicale viene riservata anche agli stadi più avanzati della malattia prostatica (stadio C-D1: pT3 N0 N1); in questi casi la terapia chirurgica viene talora preceduta dalla terapia ormonale neoadiuvante allo scopo di ridurre il volume ghiandolare e la massa neoplastica. In questi casi si è visto che la terapia combinata (chirurgia + terapia ormonale) risulta efficace e garantisce risultati superiori alle singole modalità terapeutiche.
Gli effetti collaterali della prostatectomia radicali sono rappresentati dall’incontinenza urinaria e dalla impotenza; la prima è stata riscontrata in una percentuale inferiore al 5% .
La potenza sessuale viene conservata in percentuale variabile dal 35 al 70 %. Questa estrema variabilità crediamo sia determinata, oltre che da una corretta esecuzione dell’intervento nerve sparing (preservazione dei nervi crigendi), anche dall’età, dalla vascolarizzazione e dallo stato psichico che, proprio per la malattia, può essere alterato.
Oggi, a differenza del passato, quando il paziente, per motivi non del tutto ancora chiariti, non beneficia della tecnica “nerve sparing”, può risolvere il problema della potenza sessuale mediante terapie intracavernose con farmaci vasoattivi o, in ultima ipotesi, mediante l’impianto di moderne e sofisticate protesi peniene. Infine la chirurgia può essere condotta con scopi palliativi per risolvere le complicanze ostruttive (TURP)

b) Radioterapia
La radioterapia riveste sicuramente un ruolo di primo piano nel trattamento del carcinoma prostatico sia da sola che in associazione ad altre possibilità terapeutiche
Indicazioni alla radioterapia esistono sia negli stadi ad estensione locoregionale limitata che negli stadi ad estensione locoregionale avanzata o addirittura negli stadi metastatici.
Il trattamento radiante può essere utilizzato anche in associazione alla chirurgia o alla terapia medica.
La radioterapia come alternativa alla chirurgia è stata spesso oggetto di discussione, in quanto i risultati sembrano decisamente inferiori rispetto all’intervento chirurgico radicale
La Criochirurgia è una moderna terapia praticata per via percutanea, che è stata di recente sperimentata e divulgata in America con risultati tuttora da definire.

Terapia ormonale
E’ noto da tempo (Huggins e Hodges 1941) che il tessuto prostatico normale, quello ipertrofico e quello carcinomatoso rispondono alla somministrazione degli ormoni androgeni. Nel corso di questi anni la terapia medica sistemica del carcinoma prostatico è stata indirizzata alla ricerca di farmaci in grado di contrastare la stimolazione dell’ormone maschile. Il 95% del testosterone circolante e altri androgeni sono prodotti dai testicoli, mentre il surrene produce il rimanente 5%. La terapia ormonale viene utilizzata essenzialmente per trattare il tumore prostatico metastatizzato. In presenza di una malattia con metastasi ossea non trattata, con conferma alla scintigrafia ossea, la terapia ormonale è in grado di produrre un miglioramento nel 60-80% dei casi(Sogani-Fair, 1987) solo il 30-40% dei pazienti possono rivelarsi non rispondenti alla terapia endocrina

 

Trattamento endocrino

sembra migliorare la sopravvivenza globale, ma la scelta del tempo giusto del trattamento è ancora controversa: sembra comunque che una terapia ormonale precoce sia in grado di influenzare positivamente la sopravvivenza rispetto ad una terapia dilazionata o instaurata non appena compaiono i primi sintomi. L’elenco dei farmaci impiegati nella terapia del carcinoma prostatico è lunga e molto eterogenea.

Terapia del Carcinoma Prostatico in Fase Avanzata

1) Antiandrogeno per tre mesi

a) ciproterone acetato (Androcur Depot*) 1 fiala intramuscolo ogni 7 giorni

b) flutamide (Eulexin*) 1 cps x 3 al di

c) bicalutamide (casodex*) 1 cps al di

dal trentesimo giorno inizio della terapia con LHRH

2) LHRH Analoghi
a) Buserelin (SUPREFACT RETARD*) l fiala sottocute ogni due mesi
b) Goserelin (Zoladex 10,8*) 1 fiala sottocute ogni tre mesi
c) Leuprolide (Enantone Depot*) 1 fiala intramuscolo ogni mese

d) Triptorelin (Decapeptyl*) 1 fiala intramuscolo ogni mese

 

Orchiectomia bilaterale
Ha rappresentato per molti anni la terapia iniziale e più comune del carcinoma prostatico; ancora oggi, in caso di neoplasie in fase avanzata, per alcuni autori (Schroder 1991, Deins 1992), viene considerata una terapia standard. Attualmente crediamo però che, considerata l’alta possibilità di scelta di farmaci, l’intervento sia da proscrivere.

Estrogeno terapia
(Dietistilbestrolo) per molti anni ha rappresentato una alternativa alla castrazione chirurgica. Gli estrogeni, con differenti meccanismi di azione determinano un azzeramento della produzione di testosterone. Fra gli effetti collaterali degli estrogeni bisogna ricordare la depressione, l’impotenza, le vampate di calore, ginecomastia dolorosa e tossicità cardiovascolare.

Progestinici di sintesi
(Medrossiprogesterone acetato, megestrolo acetato) per le loro caratteristiche, vanno affermandosi come farmaci di seconda linea nel trattamento del carcinoma avanzato e possono essere utilizzati sia per la loro attività antitumorale, che come farmaci di supporto in quanto dotati di azione antidolorifica, stimolazione dell’appetito, miglioramento dello stato soggettivo con riduzione della stanchezza.

Antiandrogeni
Sono in grado di ridurre le concentrazioni di testosterone plasmatiche a valori che sono uguali a quelli ottenuti con la castrazione. Tra gli antiandrogeni steroidei va ricordato il ciproterone acetato. Tra gli antiandrogeni puri vanno ricordati la flutamide, la nilutamide e bicalutamide (Casodex*)
I farmaci che sicuramente hanno avuto maggiore successo nella terapia del carcinoma prostatico sono gli analoghi dell’LHRH. Tali composti sono stati introdotti in terapia agli inizi degli anni 80 ottenendo vasti consensi per gli scarsi effetti collaterali. 
La terapia medica con analoghi agonisti dell’LHRH riveste oggi un ruolo di primaria importanza nei pazienti con carcinoma prostatico disseminato per diversi motivi:
a) efficacia dell’azione terapeutica paragonabile alla castrazione chirurgica con una risposta positiva che si realizza in un’alta percentuale di pazienti nei primi due o tre mesi di terapia
b) scomparsa del dolore quando presente;
c) assenza di effetti collaterali di rilievo, se si escludono quelli legati all’azione del farmaco (abolizione della libido, deficit della potenza e dell’erezione nel 60% dei casi).Circa la metà dei pazienti lamenta comparsa di vampate di calore e sudorazione anche modeste, che possono anche scomparire nel tempo
Per prevenire alcuni effetti collaterali legati alle prime somministrazioni degli LHRH ANALOGHI agonisti è necessario far precedere questa terapia dalla somministrazione di antiandrogeni per tre mesi. Gli analoghi attualmente disponibili sono rappresentati dal Buserelin (Suprefact Retard*), Goserelin (ZOLADEX*),Leuprolide(ENANTONE Depot*), 
Triptorelin (DECA­PEPTYL *).
Gli analoghi antagonisti dell’LHRH (non ancora in commercio) esercitano la loro azione a livello recettoriale, determinando una inibizione della secrezione delle gonadotropine e quindi di testosterone. Infine gli Inibitori della biosintesi steroidea quali Aminoglutamide e Chetoconazolo, rivestono un ruolo di secondaria importanza nel trattamento del carcinoma prostatico anche per la frequenza e gli effetti collaterali. Tali farmaci sono impiegati nelle forme in progressione dopo un iniziale trattamento endocrino ed anche in associazione con analoghi allo scopo di ottenere un blocco androgenico totale.

GIORGIO CARMIGNANI – Direttore Istituto Clinica Urologica

ALDO DE ROSE – Aiuto Istituto Clinica Urologica

 

Pubblicazione del 1997

TERAPIA CHIRURGICA DELLE VARICI ESSENZIALI O PRIMITIVE

Paragoniamo il circolo venoso ad un fiume con alcuni affiuenti: in tutto il sistema la corrente deve avere un senso ben definito e l’acqua deve sempre scorrere senza ristagnare in pozze che diventino paludi o invertire il flusso in rigagnoli controcorrente, che possono man mano ingrossarsi e stornare la corrente dalla giusta direzione. Le dilatazioni venose dette varici possono essere quindi paragonate a laghi con acqua stagnante o a corsi d’acqua nei quali il flusso é diminuito o addirittura invertito rispetto alla normale direzione.Così come si farebbe in natura anche per fare ritornare il sangue venoso nella giusta direzione (periferia centro) occorre creare argini che impediscano la comunicazione tra l’alveo normale e le vie aberranti oppure interrompere completamente le comunicazioni od eliminare stagni e rigagnoli inutili e dannosi per l’economia generale. Ecco spiegate a grosse linee le finalità e i mezzi della terapia delle varici che si distingue in due metodiche: chirurgica e scleroterapica. Esse non sono in contrasto fra loro, come potrebbe sembrare, ma complementari l’una all’altra e ciascuna capace di ottenere i migliori risultati, se le indicazioni sono state esattamente poste, e da sola e in associazione con l’altra. Per spiegare ancora per metafora la chirurgia elimina, porta via “stagni e rigagnoli”, lasciando solo il fiume e i suoi rami collaterali di normale flusso, la scleroterapia invece crea argini che impediscano il reflusso e ostruisce gli stagni e i rigagnoli in modo che essi vengano obliterati in modo definitivo quindi annullati. Il risultato terminale deve essere lo stesso: eliminazione dei punti di fuga e delle ectasie venose. Qui bisogna sottolineare, anche per sfatare quel senso di disagio che molti pazienti hanno quando si propone loro di eliminare le varici e che si manifesta con il timore che li si possa privare di “vasi necessari”, che le varici una volta formatesi non sono più vasi venosi utili ma sono dannosi e si perpetua tramite loro l’insufficienza venosa e la stasi con gravi complicanze future: insufficienza venosa cronica discromie cutanee-ulcere. 

 

Le schematiche esemplificazioni sopra riportate possono servire a fare capire come occorra intervenire per tempo, quando si può agire solo in alcuni punti non ancora sottoposti a grossolani “sfiancamenti” senza che si siano già instaurati danni ai tessuti circostanti e possono inoltre spiegare come la terapia oltre ad eliminare la causa determinante agisce su quel che di patologico é in atto nel determinato momento, interrompendo la cascata peggiorativa che poteva prende il via se la situazione non veniva corretta. Comunque, anche l’intervento più riuscito, cioé quello che restituisce una perfetta integrità fisiologica ed estetica agli arti del soggetto trattato, non può impedire che con il passare degli anni in chi é predisposto, e per familiarità e per abitudini di vita, si possano verificare altri sfiancamenti venosi per stasi o inversione di flusso. Questi saranno però sempre di entità molto modesta rispetto a ciò che sarebbe certamente accaduto se l’intervento terapeutico non fosse stato eseguito e ad essi si potrà di solito provvedere con semplici manovre di scleroterapia aggiuntiva sempre che il paziente oltre ad osservare ingieniche regole di vita (dimagrire, camminare molto con calzature adatte ecc.) si sottoponga a periodici controlli e non trascuri la sorveglianza attenta e periodica di uno specialista, il quale dopo averlo curato, o con l’intervento chirurgico o con la scleroterapia o con l’ausilio di entrambi i mezzi, possa dargli utili consigli per prevenire o bloccare sul sorgere quelle piccole dilatazioni venose così spiacevoli, che in alcuni casi trascurati potrebbero comparire.
Varici essenziali o primitive sono quelle che insorgono “primitivamente” in soggetti predisposti per particolare situazione di debolezza connettivale ed insufficienza valvolare.
Varici secondarie sono quelle che subentrano come risposta di stasi o di supplenza in caso di patologie che interessano zone limitrofe (circolo venoso profondo, vasi iliaci ecc) e che danneggiano il circolo venoso superficiale in via secondaria.
E’ necessario escludere alterazioni del circolo venoso profondo con accurato esame clinico ed eventualmente con accertamenti diagnostici complementari flebografia e flussimetria ultrasonica “Doppler”.

La flebografia è una metodica radiologica, la flussimetria è una metodica non invasiva, di preziosissima utilità anche per la sua ripetibilità nel seguire l’evoluzione della malattia.
Fatta dunque la diagnosi di varici essenziali a carico della grande o della piccola safena o di entrambe con chiari segni di incontinenza degli ostii safeno femorale e safeno popliteo con inversioni di flusso, per chiudere questi punti di fuga, eliminare i vasi venosi ectasici ed interrompere le comunicazioni abnormi (in senso dentro fuori-circolo venoso profondo circolo venoso superficiale) dei vasi comunicanti si pone l’indicazione chirurgica.
Questa scelta non deve apparire troppo “drastica”, ma, in un soggetto giovane e sano e comunque in buone condizioni generali, è la via più breve e definitiva per eliminare cioè “togliere via” dei vasi divenuti inutili e dannosi nell’economia circolatoria dell’individuo. In essi il sangue o ristagna o prende il senso contrario alla giusta direzione ingorgando il “traffico” così come ingorgherebbe un’autostrada un flusso di autovetture immesso in una corsia in senso contrario a quello di marcia.
Per schematizzare la tecnica chirurgica sottolineo ancora le finalità dell’intervento.
1) interrompere le comunicazioni dove avviene inversione di flusso.
2) eliminare i vasi venosi divenuti ectasici (= varicosi).
A seconda che si asporti la grande safena (Safena interna) o la piccola safena (safena esterna) l’intervento viene detto Safenectomia interna o esterna e si può aggiungere l’aggettivo totale o parziale se tutta o soltanto una parte della vena viene asportata.

Safenectomia totale interna
Due sono le sedi delle incisioni principali
1) Regioni della piega inguinale
2) Regione premalleolare interna (alla caviglia)
In regione inguinale si incide cute e sottocute in corrispondenza dello sbocco safeno-femorale, si isola la safena proprio là dove si va a buttare nella vena femorale con una tipica curva e manico di ombrello della “crosse” che va evidenziata con accuratezza perché qui la safena riceve vasi collaterali da diverse direzioni, che vanno, opportunamente legati e sezionati. La stessa safena va interrotta al limite dell’imbocco nella femorale per non lasciare un “cul di sacco” prossimalmente alla legatura.
Questa legatura interrompe la cascata retrograda che avevamo diagnosticato clinicamente come insufficienza dello sbocco safeno-femorale e per la quale principalmente avevano posto l’indicazione chirurgica.
Il moncone distale (verso valle) della safena sezionata si isola per un tratto così da eliminare anche qui eventuali collaterali. Si incide quindi per un piccolo tratto la cute al davanti del malleolo interno: subito appare la safena interna alla sua origine accompagnata da un piccolo nervo (il nervo safeno). Anche qui si seziona, si lega il moncone verso il piede e si tiene beante l’estremità verso l’alto.
Il lume si infibula con apposito strumento detto Stripper che è simile ad uno spago metallico, che termina con due estremità filettate a passo di vite sulle quali possono essere avvitate apposite testine.
E’ preferibile incanalare dal basso verso l’alto (cioè nello stesso senso della corrente fisiologica) il lume venoso per evitare eventuali ostacoli alla progressione da parte delle tasche valvolari. L’estremità viene a spuntare dal moncone di safena in regione inguinale: si avvita una “testina” di calibro adeguato e si lega la vena sullo “stripper”, in basso si può avvitare un apposito manico: per trazione dal basso lo “stripper” porta via su di sé tutta la safena e strappa (quindi interrompe) rami collaterali che vi confluivano a diversi livelli.
Con questo tempo si raggiunge la seconda finalità prefissata: l’asportazione del vaso varicoso.
Questo semplice geniale accorgimento permette di “sfilare”, una lunga safena con due sole piccole incisioni chirurgiche e fa dimenticare come agli albori di questa chirurgia si facesse una sola lunga incisione verticale dall’inguine alla caviglia per esporre tutto il vaso e quindi asportarlo.
Spesso si deve interrompere la risalita dello strumento a circa metà percorso perché la punta si ferma: con una piccola incisione si può estrarla, sezionare il vaso e fare la manovra in due tempi.
Altre incisioni possono essere necessarie per porre legature e sezioni mirate di vasi venosi comunicanti che, lasciati in sede, porterebbero a recidive sicure (in particolare per le vene perforanti del terzo medio-inferiore della gamba e del terzo inferiore della coscia).
Si è sopradescritta la safenctomia totale: esiste anche la possibilità di asportare soltanto il tratto di safena che si riesce ad incanalare dall’alto (per es. fino al ginocchio), sempre dopo legatura e sezione della crosse; safenctomia breve o stripping corto.
Si demanda poi l’eliminazione delle varici della gamba alla sc1ero­terapia, senza fare ulteriori incisioni chirurgiche.
Questa metodica è piuttosto usata nei paesi del centro Europa dove più che da noi esiste stretta collaborazione tra chirurgia e scleroterapia. Le due possibilità terapeutiche sono viste come complementari cosicché anche quando non sia la stessa persona, come sarebbe l’ideale, l’esecutore di una completa perfetta toelette flebologica, si può constatare la collaborazione di centri medici e chirurgici. Essi inviano gli uni agli altri, i pazienti senza che si avverta affatto quel senso di “contrapposizione” o conflittualità che sembra a volte esistere in Italia tra l’indirizzo chirurgico e quello scleroterapico.

Safenectomia totale esterna
L ‘incisione a monte è eseguita nel cavo popliteo per lo più ad S per non avere retrazioni cicatriziali: si isola, si seziona e si lega la piccola safena allo sbocco nella vena popletea, l’incisione a valle è dietro il malleolo esterno. Un apposito stripper più corto permette l’estrazione di questa safena.
Le due safenctomie possono avvenire contemporaneamente nello stesso paziente. Prima di entrambi gli interventi il chirurgo provvede personalmente a disegnare con apposita matita dermografica le varici del paziente e dopo ad applicare un bendaggio elastico contentivo.
È bene che il paziente si alzi e cammini al più presto, di solito nel pomeriggio del giorno stesso, e può essere dimesso dopo pochi giorni di degenza.

Ernesta Galgano -angiologa
pubblicazione del 1984

CELLULE STAMINALI DEL CORDONE OMBELICALE

D’altra parte Ie cellule staminali del cordone ombelicale rappresentano una formidabile alternativa al trapianto di midollo osseo e ad oggi sono più di 75 Ie patologie che vengono affrontate con il loro utilizzo: non solo nell’ambito delle più gravi patologie del sangue, ma anche per i tumori solidi, la riparazione e ricostruzione dei tessuti, iL diabete infantile e molte altre malattie. L’elenco è sicuramente destinato ad allungarsi sia per I’eccezionale plasticità cellulare che caratterizza Ie staminali del cordone ombelicale, sia per la velocità con cui, per fortuna, progredisce la ricerca medica scientifica.

Crylogit-Regener è il nome dell’ Azienda italiana leader nella crioconservazione delle cellule staminali del cordone ombelicale, e offre la possibilità di ricevere il kit a casa, dopo aver compilato il modulo di richiesta, scrivendo a info@crylogiUt o scaricabile direttamente dal site http://www.crylogiUt .oppure possono essere richieste informazioni al numero verde 800 128 393.
“Oggi, dice Claudio Lotti, amministratore unico di Crylogit-Regener, Ie donne hanno in mano un potere importante, di cui spesso non sono consapevoli: salvare dalla pattumiera il cordone ombelicale al momento del parto e decidere per la crioconservazione autologa (cioè ad uso proprio/familiare) delle cellule staminali contenute nel sangue del cordone stesso. In questa modo ogni mamma ha il potere di non delegare in merito alla salute del figlio e creare una sorta di assicurazione biologica anche per il resto della famiglia”. Conservare Ie staminali del “proprio” cordone ombelicale oggi costa poco ma soprattutto, finalmente, è possibiIe farlo con società italiane, che finanziano progetti di ricerca sviluppati per intero in centri ospedalieri ed universitari d’eccellenza del nostro paese; la possibilità invece della donazione, in una “banca pubblica”, purtroppo si scontra tuttora, quotidianamente, con I’incapacità degli ospedali di garantire la raccolta del cordone e la corretta conservazione delle cellule.

Autore: Dr. Aldo Franco DE ROSE Specialista Andrologo e Urologo Genova
aldofdr@libero.it
Pubblicazione giugno 2010

IMSI- UNA TECNICA PIU’ EFFICACE DELLA FECONDAZIONE ASSISTITA

Un pioniere, in Italia e all’estero, che ha stupito il mondo scientifico intero per la sua originalità e successo in questa campo (ad oggi 11mila parti con fecondazione assistita), e il prof Severino Antinori, che da sempre ha dei punti fermi ed irremovibili ce lo contraddistinguono: prima di qualsiasi tentativo di fecondazione assistita e necessaria che la coppia sia studiata, cercando di correggere eventuali disturbi maschili e femminili, prodigandosi ed adoperandosi soprattutto per un parto in modo naturale. Quando questa non è possibile, allora ben venga la fecondazione assistita, anche in età avanzata, a patto che esista un buon equilibrio psicotico della coppia e assenza di malattie da parte della futura madre. E il primato in questa campo spetta proprio al
prof Severino Antinori che mediante la fecondazione assistita ha fatto partorire una donna di 63 anni. Oggi però, in tema di fecondazione assistita, ha solo una preoccupazione: scegliere lo spermatozoo migliore, quello che ha più probabilità di fecondare. “Per fare questo, precisa il prof Severino Antinori, è necessario raggiungere una magnificazione di 6600X tramite un sistema composto dalle lenti dell’invertoscopio, da una telecamera digitale, da un sistema di lenti esterno applicato alla telecamera e dalla dimensione in pollici del monitor ad alta risoluzione”.
In buona sostanza, tramite questa complesso sistema di lenti e di ingrandimenti è possibile osservare, in tempo reale, la morfologia fine degli spermatozoi. Molte sono le patologie che affliggono il seme maschile. Insomma tutta questa attenzione per scegliere lo spermatozoo meglio conformato e con pia possibilità di fecondare, riducendo di molto i tentativi inutili di fecondazione assistita. “Tramite tale metodica infatti, continua il prof Antinori, si possono osservare malformazioni a carico delle diverse regioni; vacuolizzazioni, forme globulari, piriformi, gravemente piriformi della testa, acrosomi con diverse morfologie o che rivestono porzioni diverse della superficie della testa; colli malformati; code doppie, spezzate, inclinate di 90 gradi rispetto alla forma fisiologica (e quindi inabili alla trasmissione del movimento) o mancanti del tutto sono ora individuabili facilmente”.
Diventa dunque possibile selezionare lo spermatozoo in maniera diversa, ancora più rigorosa. Inoltre, ora diviene possibile individuare anche quegli spermatozoi dall’aspetto morfologicamente normale, ma che presentano delle anomalie dell’ultrastruttura interna. L’impiego di questa metodica diventa quindi ancora più selettiva rispetto alla ICSI classica, che ora viene chiamata IMSI.
“Utilizzare tale metodica nell’analisi del seme di pazienti che si sono già sottoposti a precedenti tentativi di fecondazione assistita, con esiti negativi, sottolinea il prof Severino Antinori, potrebbe dare una maggiore percentuale di gravidanza.
Ovviamente, tale analisi deve essere effettuata in concomitanza di altre analisi investigative su possibili cause congiunte di infertilità, a carico sia dell’uomo che della donna. E nell’uomo e importantissimo il ruolo dell’andrologo che dovrà essere in grado di individuare e curare eventuali malattie, dal varicocele alle infezioni delle vie seminali (prostatiti, epidi­dimiti) a quelle sessualmente trasmesse.

Composizione dello spermatozoo
Lo spermatozoo, infatti, è un complesso vettore portatore, nella regione cefalica, dell’informazione genetica. Le dimensioni della testa, del collo e della coda sono state ben definite da eminenti specialisti tutti concordi nell’affermare che variazioni troppo ampie dalle dimensioni fisiologiche influiscono su diverse caratteristiche dello spermatozoo stesso, come ad esempio la velocità (fornita dal movimento del flagello), la direzione del movimento o la capacità di entrare in contatto con il gamete femminile (l’oocita).
Importante però è prestare molta attenzione alla vitrificazione cioè a quel processo che permette di congelare gli oociti impiegando pochissimo tempo e sottoponendo gli stessi al minor stress possibile. La vitrificazione di ovociti ed embrioni derivanti da varie specie animali è largamente impiegata; le tradizionali metodiche di congelamento, “lento” e “rapido”, hanno fornito e forniscono tuttora ottimi risultati, ma oggi l’attenzione è decisamente spostata verso questa
tecnica, di recente introduzione in Italia, ma già in uso in altri paesi. I vari processi che servono per crioconservare gli oociti, precisa la dottoressa Monica Antinori, richiedono l’impiego di soluzioni contenenti diversi composti, tra i più importanti dei quali annoveriamo i crioprotettori (ossia sostanze che proteggono l’oocita da eventuali danni derivanti da stress termico) e il sucrosio (particolare tipo di zucchero)”. AI contrario delle “vecchie” metodiche, che richiedevano delle specifiche macchine per permettere al materiale biologico di raggiungere temperature come -196°C, con notevole dispendio di tempo (circa tre ore), questa nuova tecnica permette
il raggiungimento di bassissime temperature in maniera pressochè immediata. “II materiale biologico, opportunamente trattato, dice il prof Monica Antinori, viene infatti immerso direttamente in azoto liquido”. “Risultano notevolmente migliori, continua il prof Severino Antinori, anche i tassi di soprawivenza degli oociti al momento dello scongelamento e vengono eliminate così problematiche intrinsecamente legate alle “vecchie” metodiche, (ad es. la formazione di cristalli di ghiaccio all’interno dell’oocita, dannosi per le strutture cellulari).
Gli oociti vengono posti in soluzioni apposite e preparati per il trattamento, dopodichè sono prelevati e depositati su speciali “provette” che verranno immerse in azoto liquido. II materiale biologico può essere conservato per un lungo periodo di tempo senza risentire in modo significativo dello stress termico.
La tecnica della vitrificazione, poichè non prevede l’uso di macchinari specifici, richiede una elevata abilità manuale da parte dello staff addetto all’esecuzione di tale metodica.

Autore prof.Aldo Franco De Rose
Specialista Andrologo e Urologo Genova
aldofdr@/ibero.it