Ematologia

BREVE STORIA DELLA TRASFUSIONE DI SANGUE

Questa pratica terapeutica apparentemente semplice celava tuttavia tali insidie e difficoltà, che solo dopo secoli di studi e di tentativi, che hanno richiesto la collaborazione di ricercatori appartenenti ai campi più svariati delle scienze biologiche e fisiche, esse hanno potuto venire superate. La necessità di risolvere i problemi pratici della trasfusione è inoltre servita da stimolo continuo allo studio della composizione del sangue e dei fenomeni immunologici. Oltre a salvare la vita e ad alleviare le sofferenze di molti pazienti, la pratica della trasfusione di sangue ha perciò contribuito notevolmente al progresso delle nostre conoscenze di fisiologia e di patologia umana.

I primi tentativi di somministrare sangue a scopo terapeutico sono stati probabilmente compiuti per via orale, e non sono perciò stati di grande utilità. Le prime vere trasfusioni di sangue per via endovenosa hanno potuto essere compiute solo dopo la scoperta della circolazione del sangue, scoperta annunciata da William Harvey nel 1628. Il primo problema pratico che si è posto è stato allora come trasferire il sangue dal sistema circolatorio del donatore a quello del ricevente. Nella seconda metà del ’600, Richard Lower a Londra e Jean Baptiste Denis, medico di Luigi XIV, a Parigi, hanno risolto questo problema in modo rudimentale, utilizzando penne d’oca o piccoli tubi d’argento di varia foggia; essi sono così riusciti a compiere le prime trasfusioni, in un primo tempo tra animali e poi tra esseri umani. Tra i pionieri della tecnica vi è anche un astigiano, Guglielmo Riva, anch’egli medico alla corte di Luigi XIV.
Naturalmente, data la totale ignoranza delle incompatibilità tra i vari tipi di sangue e degli agenti infettivi che potevano essere trasmessi con la trasfusione, i risultati sono spesso stati disastrosi, al punto che la trasfusione di sangue è caduta in disuso, se non si tiene conto di pochi tentativi isolati, per più di due secoli, ed è perfino stata ripetutamente e severamente proibita da varie autorità civili e religiose.
Un grande passo avanti è stato compiuto solo nel 1900, quando Karl Landsteiner ha scoperto i gruppi sanguigni principali, cosa che ha permesso di scegliere, prima della trasfusione, il tipo di sangue che un determinato paziente può ricevere senza danno. La successiva scoperta di sistemi minori di incompatibilità, e di metodi per determinare rapidamente il gruppo sanguigno, ha definitivamente relegato le reazioni da incompatibilità tra i problemi del passato.
La stessa cosa non si può purtroppo dire dell’altro grande problema posto dalla trasfusione di sangue, cioé della possibilità di iniettare nel paziente, assieme al sangue, germi responsabili di malattie infettive. Anche da questo punto di vista i passi avanti sono stati enormi. Le tecniche dell’asepsi, scoperte già nell’800, permettono infatti di impedire che i germi patogeni presenti nell’ambiente penetrino nel sangue del donatore dal momento del prelievo a quello della trasfusione. L’esecuzione di vari esami sul sangue del donatore permette inoltre di escludere che egli sia portatore di diverse malattie, tra le quali, ad esempio, la sifilide. Resta però ancora impossibile stabilire con assoluta certezza se il sangue del donatore contiene il virus dell’epatite, anche se dei tre principali tipi di virus responsabili di questa malattia, uno è ormai facilmente identifica bile mediante la determinazione del cosiddetto Antigene Australia. È probabile che in un prossimo futuro anche gli altri due tipi di virus possano essere identificati facilmente, e che quest’ultimo importante problema posto dalla trasfusione di sangue venga perciò definitivamente risolto.
Se la trasfusione di sangue è ormai disponibile, almeno nei paesi occidentali, a tutti quelli che ne hanno bisogno, ciò si deve però, oltre che alla generosità dei donatori, alla scoperta di sostanze anticoagulanti ed alle tecniche di perfrigerazione, che permettono di conservare a lungo il sangue, inalterato ed allo stato liquido, in attesa del momento in cui se ne avrà bisogno. Più recentemente sono state addirittura scoperte tecniche che permettono di conservare il sangue pressochè indefinitamente, mediante congelamento. Se queste tecniche non sono ancora molto diffuse, ciò si deve soltanto al loro costo, ancora relativamente elevato.
Vorrei infine osservare che l’impiego terapeutico del sangue è diventato molto più sofisticato di quanto non fosse pochi decenni fa.
È infatti ormai possibile somministrare non solo il sangue intero, ma anche, in forma concentrata, i suoi singoli componenti (piastrine, globuli rossi, globuli bianchi, fattori della coagulazione, globuline capaci di difendere contro varie malattie infettive ecc.), a seconda dei bisogni del paziente. Infine, i moderni progressi terapeutici in vari campi, dalla cardiochirurgia con circolazione artificiale extracorporea alle moderne terapie antitumorali, non sarebbero stati possibili se non vi fosse stata ampia disponibilità di sangue fresco o ben conservato.
Se si pensa agli enormi progressi compiuti sembra quasi impossibile che la scoperta dei gruppi sanguigni risalga soltanto all’inizio del secolo e che le prime banche del sangue siano state fondate solo negli anni Trenta; non si può non sperare che altri progressi vengano compiuti nel prossimo futuro, in modo che la trasfusione di sangue diventi sempre più utile e sicura.
Prof. Ambrogio Chiesa
Primario dellà Divisione
di Medicina Generale dell’Ospedale Civile di Asti
Gentilmente concesso da AVIS

DONAZIONE DI SANGUE E SICUREZZA DELLE TRASFUSIONI

Il primo dovere del medico trasfusionista è quindi quello di esaminare attentamente il donatore potenziale e di interrogarlo per scoprire eventuali fattori di rischio. 

L’anamnesi deve essere minuziosa e precisa; è necessario raccogliere tutte le notizie riguardanti la salute del donatore, le principali malattie avute, le abitudini di vita. Una ricerca di questo tipo può consentire un primo screening per una eventuale esclusione. In ogni caso il mezzo più valido di selezione rimane il controllo del sangue raccolto, mediante il test per la ricerca dell’ anticorpo.
Esiste la possibilità di trasfondere il virus, e quindi di trasmettere l’infezione, anche con sangue negativo al test, se il donatore, benché infetto, è ancora privo di anticorpi specifici (quando si trova cioè nel cosiddetto “periodo finestra”). Secondo gli ultimi studi, su un milione di donatori sieronegativi, 5 sono infetti. E’ quindi indispensabile che il donatore sia a conoscenza delle drammatiche conseguenze che potrebbe provocare un eventuale comportamento a rischio, affinché eviti la donazione di sangue.
E’ importante dare maggior risalto al rapporto col medico trasfusionista: questo facilita il donatore nel riferire fatti e dubbi che potrebbero essere importanti e costituire indicazione per una auto-esclusione.
Attualmente sono stati adottati dei questionari, che i donatori devono compilare e sottoscrivere ad ogni donazione, che riportano precise domande sullo stato di salute e sulle abitudini di vita: questo è un ulteriore mezzo per favorire l’esclusione dalla donazione di persone con comportamento a rischio.
Inoltre è importante organizzare, con l’AVIS di riferimento, incontri tra donatori e personale del centro trasfusionale, durante i quali poter discutere meglio dei rischi legati a donazioni non sicure o delle modalità di contagio, per alimentare e aumentare la responsabilità del donatore periodico, che ha dedicato una parte della propria esisten­za al volontariato.
In questo senso è bene non incoraggiare le donazioni occasionali in quanto alcuni potrebbero essere indotti solo per il controllo del test per l’ AIDS, per il quale esistono centri di riferimento specifici a cui inviare chi ne facesse richiesta.
Un ulteriore mezzo di prevenzione è costituito dall’autotrasfusione, metodica da effettuarsi in casi selezionati e per interventi chirurgici programmati.

Scritto nell’Agosto 1993
GRONDA D. , PEZZALI M.
Centro Trasfusionale
Ospedale Civile
C.so Milano 19
27029 VIGEVANO (PV)

LE ANEMIE IN CORSO DI GRAVIDANZA

In corso di gravidanza, quando al fabbisogno in ferro della madre si aggiunge il fabbisogno in ferro del feto, stati ferro­canziali non ancora clinicamente evidenti possono esplodere, specie alla fine della gravidanza, quando alla fisiologica anemia da emodiluizione (legata all’aumentato volume plasmatico da probabile iperaldosteronismo), si aggiunge la sottrazione ai depositi materni di varie centinaia di mg. di ferro necessari per il feto: ricordiamo che ogni gravidanza costa alla madre 500 mg. circa di ferro.

Ciò costituisce un decimo del patrimonio globale in ferro dell’ organismo materno e le pluripare quindi sono molto soggette alle anemie da carenza di ferro. Pertanto l’ostetrico deve lavorare a stretto contatto con l’ematologo per documentare lo stato anemico e correggerlo adeguatamente.
Sarebbe lungo discutere in breve spazio la patogenesi delle anemie da carenza di folati e/o di Vit. B 12 che possono insorgere in corso di gravidanza. C’è da sottolineare comunque che è dimostrato come i folati sierici materni vengano intrappolati nella placenta e ciò probabilmente per essere prontamente disponibili per il feto, il che ha come conseguenza una diminuita disponibilità dei folati stessi per eritropoiesi materna. Dopo il parto, con l’espulsione della pla­enta, si perdono notevoli quantità di folati e poiché le riserve di folati, a differenza delle riserve di Vit. B 12 (che assommano a circa 3000 gamma) sono estremamente esigue, può verificarsi nel post partum una anemia da carenza di folati che si manifesta con un midollo megalomacroblastico e, a livello periferico, con un’anemia macrocitica.
Altro aspetto che è necessario tener presente nella donna in gravidanza è la possibilità che la gravidanza stessa metta in evidenza uno stato anemico congenito ignorato prima della gravidanza.
Ci riferiamo in particolare allo stato betatalassemico eterozigotico che, come è noto, può passare del tutto inosservato dal punto di vista clinico in soggetti di estrazione sarda, meridionale o originari, delle regioni del Delta del Po.
In questi soggetti, in cui si possono avere normalmente valori di ematocrito intorno al 30-33% con un alto numero di globuli rossi (5-6 milioni di globuli rossi x mm3, dato il carattere microcitico ipocromico della beta talassemia), si possono, durante la gravidanza, (specie nel terzo trimestre quando fisiologicamente si ha una emodiluizione legata probabilmente all’ iperaldosteroli- smo), manifestare marcati stati anemici che, ad un accurato esame dello striscio di sangue e ad un accurato dosaggio dell’emoglobina A2, si rivelano essere legati essenzialmente alla persistenza di una notevole quantità di emoglobina A2.
E’ chiaro che in questa terza eventualità, a differenza dei due stati anemici precedentemente descritti e cioè dalla anemia da carenza di folati e/o Vit. B 12, non è necessaria alcuna terapia, poiché dopo il parto, con la riduzione dell’ eccessivo volume plasmatico, si ritornerà a valori di ematocrito “normali” per la persona affetta da beta talassemia eterozigote e quindi ben tollerabili dal soggetto stesso. Nei due primi casi invece, e cioé nella anemia da carenza di folati e/o Vit. B 12, l’ostetrico e l’ematologo dovranno concordare la terapia marziale e quella con acido folico o Vit. B 12, da eseguire in modo da riportare al più presto possibile la donna nel post-partum ad uno stato ematologico di piena normalità.
Questo anche per prevenire tutti quegli stati di pseudo esaurimenti nervosi che si verificano spesso nelle donne post par­tum e che molto spesso sono legati esclusivamente alla carenza di sostanze eritropoietiche (ferro, acido folico o Vitamina B 12) che sono indispensabili per il pieno benessere e per la piena salute della donna.

Prof. Emanuele Salvidio
Ordinario Ematologia,
Direttore della Cattedra di Ematologia
Università di Genova.
Pubblicazione Giugno 1982