Urologia

la biopsia prostatica

La biopsia prostatica rappresenta l’esame diagnostico fondamentale nella diagnosi del tumore della prostata. Questa procedura – introdotta ormai alcuni decenni fa – si basa sull’esecuzione di prelievi di tessuto prostatico sotto guida ecografica (biopsia prostatica “eco-guidata”). La guida ecografica è resa possibile dall’utilizzo di sonde transrettali che indirizzano l’ago per la biopsia all’interno della prostata. L’ago può arrivare alla ghiandola prostatica passando attraverso la mucosa del retto o la cute del perineo.

Dal momento che l’accuratezza dell’ecografia nel riconoscere le aree tumorali prostatiche è limitata, la biopsia prostatica eco-guidata prevede attualmente l’esecuzione di una serie predefinita di prelievi secondo uno schema standard: si tratta pertanto di un campionamento “alla cieca” o “mappatura” casuale (“random biopsy”) e – tranne che per una minoranza di casi – non è possibile eseguire prelievi mirati verso aree tumorali sospette.
Questo tipo di procedura comporta pertanto una serie di problemi:

1. La necessità di eseguire un numero elevato di prelievi comporta un rischio più alto di complicanze e tempi allungati di esecuzione.
2. La bassa capacità dell’ecografia nel riconoscere le zone tumorali determina un rischio notevole di “mancare” il tumore prostatico: circa il 30% dei pazienti sottoposti a prima biopsia prostatica con risultato negativo sono in realtà dei falsi negativi (in cui il tumore verrà diagnosticato con inevitabile ritardo solo dopo una seconda biopsia eseguita con un numero ancora più elevato di prelievi).
3. La necessità di eseguire prelievi alla cieca comporta un rischio non trascurabile di diagnosticare micro-focolai di tumori prostatici a bassissima malignità (tumori “indolenti” o clinicamente insignificanti) che espongono i pazienti ad un successivo rischio di trattamento eccessivo (“over-treatment”).

Oggi fortunatamente disponiamo di una tecnica di imaging molto più potente dell’ecografia nel vedere i tumori prostatici: la risonanza magnetica multiparametrica prostatica (RM-mp). La nuova tecnica di biopsia prostatica mirata sulle immagini della risonanza magnetica rappresenta una rivoluzione della procedura: rispetto alla tecnica di biopsia eco-guidata è risultata più accurata nella diagnosi dei tumori prostatici aggressivi e richiede un numero minore di prelievi.

In cosa consiste la risonanza magnetica multiparametrica della prostata?
Si tratta di una tecnica che sfrutta il principio delle radiofrequenze e va pertanto considerata una procedura – al pari dell’ecografia – non invasiva (non utilizza infatti radiazioni ionizzanti). Viene definita “multi-parametrica” perché prevede l’analisi di molteplici parametri relativi alla prostata: oltre alla valutazione morfologica della ghiandola, si studiano anche gli aspetti funzionali e metabolici dei tessuti prostatici in modo da aumentare la capacità di identificare le lesioni tumorali. Per ulteriori dettagli si rimanda a questo precedente articolo interamente dedicato alla risonanza magnetica multi-parametrica.

La sensibilità della metodica (ovvero la capacità di riconoscere la presenza di un tumore) è risultata estremamente elevata e pari al 90%: 9 tumori prostatici su 10 sono realmente visibili dalla RM-mp. Si tratta quindi di un notevolissimo miglioramento rispetto all’ecografia transrettale dove più della metà dei tumori risultano completamente invisibili.
Inoltre è stato dimostrato che – nell’ambito dei tumori non visibili dalla RM-mp – la maggior parte si tratta di neoplasie a bassa malignità: da un certo punto di vista è un bene non diagnosticare queste lesioni, dato che sono spesso non pericolose per la salute del paziente e fonte di possibile over-treatment (se identificate).
L’ideale sarebbe quindi sottoporre il paziente a biopsia prostatica direttamente durante l’esame di RM-mp e realizzare quindi una biopsia “RM-mirata”. Questa procedura è teoricamente possibile ma – a causa di una serie di aspetti tecnici – risulta estremamente indaginosa, lunga e costosa. In pratica si esegue solo in centri ultra-specializzati e a scopo solo di ricerca.
Per utilizzare le informazioni della RM-mp e trasformare le zone sospette in reali bersagli per la biopsia si può ricorrere alla nuova tecnica di fusione (“fusion”) delle immagini della risonanza con quelle ecografiche. In questo modo la biopsia avviene come in passato con la tecnica eco-guidata ma con immagini “potenziate” in cui sono state integrate le aree bersaglio identificate dalla risonanza.
La nuova tecnica di fusione di immagini eco-RM: il presente e il futuro della biopsia prostatica.
La possibilità di fusione delle immagini è resa possibile dalla messa a punto di apparecchi ecografici di ultima generazione in cui è possibile “caricare” e integrare quanto riscontrato dalla RM-mp. In pratica – per l’esecuzione della biopsia con tecnica fusion – è sufficiente che il paziente abbia eseguito in precedenza la risonanza magnetica ed abbia con sé il supporto informatico contenente le immagini (ovvero il CD o DVD).
Le fasi della biopsia prostatica con fusione di immagini:

1. Si importano le immagini della RM-mp all’interno dell’hardware dell’ecografo. Le immagini della risonanza possono essere quindi viste sul monitor dell’ecografo e si vanno ad identificare le zone sospette segnalate dal medico radiologo.
2. Si introduce la sonda ecografica transrettale. Il monitor dell’ecografo è diviso in due parti: in una finestra sono visibili le immagini ecografiche della prostata ottenute in diretta dalla sonda ecografica; nella seconda finestra sono presenti le immagini della RM-mp precedentemente importate. Attraverso la presenza di un magnete e di particolari sensori di cui è dotata la sonda transrettale, è possibile “navigare” attraverso le immagini della risonanza: in pratica ad ogni movimento della sonda ecografica corrisponde lo stesso “movimento” sul monitor delle immagini ottenute in risonanza.
3. Il punto chiave della tecnica è quello della fusione. Utilizzando alcuni riferimenti anatomici ben visibili in entrambe le immagini (eco e RM) si fa in modo che ci sia una perfetta corrispondenza spaziale tra ciò che si vede nelle due finestre del monitor. A questo punto – azionando un apposito comando – avviene la procedura software di fusione delle immagini ecografiche con quelle ottenute dalla risonanza magnetica. Da questo momento in poi ritroveremo le aree bersaglio (individuate con RM-mp) integrate nelle immagini ecografiche ottenute dalla sonda transrettale.
4. Si procede a questo punto all’esecuzione dell’anestesia locale e successivamente a quella dei prelievi bioptici. Se la fusione spaziale è avvenuta in modo preciso, i prelievi bioptici risulteranno perfettamente centrati all’interno delle zone sospette identificate dalla RM-mp. Questo – come già detto – trasforma la biopsia prostatica da una metodica di campionamento alla cieca in una tecnica bioptica precisa e mirata.

Efficacia diagnostica della nuova tecnica di biopsia fusion:
I risultati ottenuti in termini di accuratezza diagnostica sono così elevati che alcuni nuovi protocolli di biopsia prostatica prevedono di eseguire i prelievi solo nelle aree sospette individuate dalla RM-mp. Questo comporta una netta riduzione del numero di biopsie inutili con ovvi benefici per i pazienti.
Confrontando i risultati della biopsia eco-guidata con quelli della tecnica fusion si osserva un netto calo di casi falsi-negativi (ovvero di biopsie risultate negative in pazienti affetti da cancro prostatico): si passa infatti dal 30% a un valore inferiore al 10%.

Complicanze della biopsia prostatica con tecnica di fusione:
Le complicanze di questa metodica sono le stesse della biopsia prostatica tradizionale, ma la loro incidenza è risultata più bassa. Questo deriva ovviamente dal fatto che il numero di prelievi bioptici risulta inferiore.
Il tipo di complicanze è diverso a seconda del tragitto che viene fatto compiere all’ago bioptico (transrettale o transperineale).
Le complicanze più frequenti sono rappresentate dalla presenza di perdite di sangue nelle urine (“ematuria”), nel liquido seminale (“emospermia”) o dal retto (“proctorragia”). Si tratta quasi sempre di problemi di lieve entità e con risoluzione spontanea nel giro di alcuni giorni.
Nella biopsia transrettale esiste un rischio di infezioni urinarie dovute al passaggio di germi presenti nel retto verso la ghiandola prostatica. In rari casi può verificarsi una prostatite acuta con fastidiosi sintomi urinari fino alla ritenzione urinaria e necessità di posizionare temporaneamente un catetere vescicale. La biopsia prostatica fusion consente di ridurre notevolmente questi rischi.

Diffusione della metodica:
Gli apparecchi ecografici di ultima generazione che consentono la fusione delle immagini hanno un costo elevato (abbondantemente superiore ai 100’000 euro) e la loro diffusione nelle strutture sanitarie (sia pubbliche che private) è ancora limitata.
La nostra unità operativa urologica (la ASL 4 della Liguria situata nel levante della provincia di Genova) dispone da quest’anno di un nuovo ecografo dotato di fusion-technology (GE Loqiq S8) che ci consente di realizzare biopsie prostatiche di fusione in modo regolare e continuato.
Maggiori informazioni sull’apparecchio ecografico in questione possono essere recuperate sul sito web della casa produttrice.

Messaggio conclusivo:
La nuova tecnica di biopsia prostatica con fusione di immagini eco-RM sta rivoluzionando il percorso diagnostico nei pazienti con sospetto tumore della prostata. Sfruttando l’elevata sensibilità della risonanza magnetica multiparametrica nell’individuare le zone sospette per la presenza del tumore, questa nuova procedura bioptica consente di eseguire prelievi estremamente precisi e mirati. Questo comporta un netto miglioramento dell’accuratezza diagnostica e consente di ridurre il numero dei prelievi bioptici con conseguente riduzione del rischio di complicanze.

Il priapismo

Il priapismo è un raro disturbo caratterizzato dalla persistenza per più di 4 ore di un’erezione peniena massimale, in assenza di alcuno stimolo sessuale. La sua denominazione deriva dal dio della mitologia greca e romana “Priapo”, noto simbolo di potenza sessuale maschile e fertilità.

Risulta estremamente importante classificare il priapismo in 3 differenti categorie:
(1) Basso flusso o ischemico
(2) Intermittente o “stuttering
(3) Alto flusso o non ischemico

1. Il priapismo a basso flusso raccoglie più del 95% di tutti gli episodi di priapismo. Viene definito come una sindrome compartimentale localizzata a livello dello 2 strutture tubulari erettili del pene, detti corpi cavernosi. Il priapismo a basso flusso è nella maggior parte dei casi di tipo “idiopatico”, ovvero senza alcuna chiara causa sottostante. Tuttavia, può essere associato a malattie ematologiche, all’assunzione di droghe od alcool, a patologie tumorali o neurologiche ed infine all’utilizzo non corretto di farmaci utilizzati nella gestione del deficit erettile (orali o più frequentemente iniettivi). Va tuttavia chiarito che i farmaci utilizzati oggi giorno, sia di tipo orale, topico o iniettivo, godono di un altissimo profilo di sicurezza, soprattutto quando correttamente gestiti da uno specialista uro-andrologo.
Il priapismo a basso flusso viene supportato da un’alterazione patologica dei normali meccanismi microvascolari che inducono la fisiologica detumescenza del pene dopo un evento erettile. Ciò comporta un’erezione persistente, con la mancanza di ricircolo sanguigno, che induce un progressivo danno ischemico ai tessuti cavernosi, per mancanza di un’adeguata ossigenazione. Tale danno risulta reversibile nelle prime ore dall’insorgenza dell’evento patologico, ma risulta del tutto irreversibile a distanza di 48-72 ore. La fisiopatologia del priapismo sottolinea pertanto l’importanza di una diagnosi precoce, al fine di scongiurare danni irreversibili che potrebbero compromettere la potenza sessuale del paziente.
Quali sono pertanto i segni caratteristici di un episodio di priapismo a basso flusso?
Un’erezione persistente, per oltre 5-6 ore, in assenza di alcuno stimolo sessuale, spesso dolorosa.
Come comportarsi nel sospetto di un episodio di priapismo?
Recarsi al pronto soccorso più vicino, per eseguire una visita urologica specialistica e, nel caso di una conferma diagnostica, ricevere le cure più opportune in modo tempestivo.
Come viene risolto un episodio di priapismo?
La gestione, competente allo specialista uro-andrologo, prevede l’aspirazione del sangue bloccato all’interno dei corpi cavernosi, il lavaggio con acqua e bicarbonato o l’iniezione di farmaci vasocostrittori (in particolare la fenilefrina). Nei casi refrattari ad un trattamento conservativo, solitamente con durata > 48-72 ore, la gestione del priapismo diventa chirurgico.
La detumescenza può essere pertanto raggiunta con l’esecuzione di uno “shunt”, ovvero la creazione di un tragitto artificale intra-penieno che faciliti il deflusso del sangue stagnante nei corpi cavernosi verso strutture anatomiche circostanti (nella maggior parte dei casi verso il glande). Lo “shunt” può tuttavia non essere efficace in tutti i casi, soprattutto se il priapismo è durato > di 48-72 ore. Inoltre, esiste un concreto rischio, in seguito a manovra di “shunt”, di sviluppare un grave disfunzione erettile. In questi casi, la soluzione definitiva, risulta l’impianto di una protesi peniena, ovvero l’inserimento all’interno del pene di un device meccanico che garantisca al paziente una rigidità dell’asta sufficiente alla penetrazione. L’impianto protesico deve essere eseguito in tempi brevi, in modo da preservare dei tessuti cavernosi elastici e facilmente manipolabili. Effettivamente, l’impianto protesico differito (oltre 1 mese) in un paziente con pregresso episodio di priapismo, può diventare estremamente complicato, rendendo necessario, in casi estremi, la completa ricostruzione dei corpi cavernosi, completamente obliterati da un processo di estesa fibrosi.

2) Il priapismo intermittente o “stuttering” è caratterizzato da uno schema ricorrente, ovvero da erezioni prolungate, di solito meno di 3 ore, più frequentemente notturne, che diventano progressivamente più dolorose, a seconda della durata dell’episodio. Possono esitare in episodi acuti di priapismo a basso flusso, anche in maniera ricorrente. Possono pertanto causare un progressivo deterioramento della funzione erettile e, ovviamente, forte disagio psico-sessuologico. Il priapismo intermittente si manifesta più frequentemente nei pazienti affetti da un disturbo ematologico detto “anemia falciforme”.
La gestione cronica di questo disturbo avviene attraverso l’impiego di diverse classi di farmaci (ad azione ormonale o ad azione vascolare), con il principale obiettivo di ridurre il numero di episodi, soprattutto di tipo acuto a basso flusso. Nei casi refrattari a qualsiasi terapia, può essere indicato il posizionamento di una protesi peniena.

3) Il priapismo ad alto flusso, al contrario dei precedenti, è secondario ad un traumatismo coinvolgente le arterie dei corpi cavernosi, che inducono la creazione di una “fistola”, ovvero di una comunicazione patologica fra l’arteria e il corpo cavernoso. Questo evento induce pertanto un’erezione prolungata sostenuta da sangue arterioso, pertanto ben ossigenato. Queste caratteristiche rendono tale forma di priapismo, non pericoloso per la salute dei tessuti erettili, esitando pertanto in una gestione di tipo differibile. Il trattamento, nei casi in cui l’episodio non esiti in una remissione spontanea, consiste in un embolizzazione selettiva della fistola eseguita dai radiologi interventisti con approccio mini-invasivo.

In conclusione, il priapismo, sebbene sia una patologia rara, può, se non opportunamente diagnosticato e trattato, compromettere in maniera anche definitiva la funzione erettile dei pazienti. La gestione sia acuta che cronica, va affidata a uro-andrologi, possibilmente in centri di riferimento, in modo da garantire un servizio di qualità basato sulle più recenti evidenze scientifiche.

Paolo Gontero
Direttore Clinica Urologica, Ospedale Molinette, Università degli Studi di Torino

Marco Falcone
Scuola di specializzazione in Urologia, Università degli Studi di Torino

Dolore testicolare: cause e rimedi.

 

Il dolore testicolare rappresenta un’evenienza clinica abbastanza frequente che può riguardare soggetti maschi di qualunque età, anche se si verifica più frequentemente nei giovani. Si dovrebbe più correttamente parlare di dolore scrotale (o algie scrotali) dato che i sintomi possono riguardare non solo i testicoli ma anche altre strutture presenti nello scroto (o borsa scrotale). All’interno dello scroto si trovano infatti anche la parte iniziale delle vie spermatiche (epididimo e vasi deferenti), le varie fasce che circondano i testicoli, diverse strutture vascolari, nervose e muscolari.

Da un punto di vista clinico è fondamentale distinguere il dolore scrotale in base alla modalità di insorgenza:

Si parla di dolore testicolare acuto (o “scroto acuto”) quando l’insorgenza dei sintomi avviene in modo rapido rispetto ad una precedente situazione di completo benessere. In questi casi il dolore è solitamente molto intenso.

Il dolore scrotale cronico ha invece un esordio subdolo: può iniziare come un semplice fastidio e avere nel tempo periodi di remissione e ricadute. Si tratta quindi di un dolore meno intenso che solitamente spinge i pazienti a rivolgersi al medico anche dopo parecchio tempo dall’insorgenza.

Un’altra importante distinzione riguarda la sede responsabile dell’insorgenza dei sintomi:

Il dolore viene definito locale o diretto quando la patologia si verifica a carico di una delle strutture presenti all’interno dello scroto.

un dolore riflesso o indiretto si verifica quando le sensazioni dolorose vengono riferite allo scroto in seguito a irradiazione nervosa in corso di problematiche che riguardano primitivamente zone anatomiche esterne allo scroto.

Il dolore scrotale acuto è molto spesso un dolore locale mentre il dolore cronico può frequentemente essere dovuto ad irradiazione.

Lo scroto acuto è una problematica importante che deve essere sempre valutata dallo specialista urologo in tempi molto rapidi: di solito si riesce ad individuare la causa dell’origine dei sintomi e intraprendere il corretto trattamento per arrivare ad una completa risoluzione e guarigione.

Il dolore scrotale cronico, al contrario, rappresenta una condizione clinica più complessa da inquadrare che spesso comporta notevole angoscia nel paziente e una certa frustrazione nel medico: non sempre si riesce a capire e identificare la causa dei sintomi e l’efficacia delle cure è sicuramente inferiore.

Le cause dello scroto acuto:

Questi sono i quadri clinici più frequentemente responsabili di un dolore testicolare acuto:

La torsione testicolare

Si verifica come conseguenza di una rotazione del testicolo intorno al proprio asse con successiva compressione ed ostruzione dei vasi arteriosi responsabili dell’apporto di sangue al testicolo. La conseguenza è un’ischemia del parenchima testicolare che – in caso di mancata risoluzione – può portare dopo alcune ore ad una necrosi irreversibile del testicolo. Colpisce tipicamente soggetti adolescenti o giovani adulti; l’insorgenza può essere spontanea oppure secondaria a piccoli traumi, per esposizione al freddo, durante i rapporti sessuali o l’attività sportiva.

Il testicolo torto risulta tipicamente spostato verso il canale inguinale, poco mobile lungo il suo asse ed estremamente doloroso alla palpazione. In questi casi è fondamentale essere sottoposti in tempi rapidi a valutazione urologica per arrivare velocemente alla diagnosi e all’intervento chirurgico in urgenza di detorsione e fissazione testicolare. Quando l’intervento avviene entro 6 ore dall’esordio del dolore la possibilità di recupero è vicina al 100%. Tale percentuale scende al 20-50% se l’operazione viene eseguita dopo 12 ore ed è vicina allo 0% dopo 24 ore. L’intervento eseguito tardivamente – una volta constatata la necrosi del parenchima (anche dopo derotazione) – comporta l’asportazione del testicolo.

In alcuni casi può avvenire una detorsione spontanea del testicolo con immediata remissione della sintomatologia dolorosa. In questi casi non è più ovviamente necessario l’intervento correttivo urgente ma resta importante una valutazione urologica per valutare il rischio di una recidiva.

La torsione dell’appendice testicolare o epididimaria

Si verifica quando la torsione non riguarda il testicolo ma una sua appendice. A livello del polo superiore del testicolo è presente l’appendice testicolare (o “idatide del Morgagni”); sulla testa epididimaria è presente una struttura analoga, l’appendice dell’epididimo. Si tratta di dotti residuati dallo sviluppo dell’apparato genitale che si formano durante la vita embrionale e che non hanno alcuna funzione dopo la nascita. La torsione di una di queste appendici può causare un quadro clinico acuto molto simile a quello della tersione testicolare e caratterizzato da dolore molto intenso. La situazione è tuttavia non pericolosa per il parenchima testicolare e non richiede alcun intervento. In alcuni casi può essere difficile riconoscere l’origine appendicolare del dolore (soprattutto quando non c’è la possibilità di eseguire un’ecografia in tempi brevi): in queste situazioni di dubbio – per non correre rischi – si può lo stesso decidere di eseguire un intervento chirurgico esplorativo.

L’epididimite acuta

Si tratta di un’infezione localizzata all’epididimo, una struttura anatomica adiacente al testicolo sede della prima parte delle vie spermatiche. Nella maggior parte dei casi sono coinvolti batteri provenienti dalle vie urinarie o trasmessi durante i rapporti sessuali. Spesso l’infiammazione rimane localizzata al solo epididimo; in alcuni casi può estendersi al vicino parenchima testicolare: si parla in questi casi di “orchi-epididimite”.

Il quadro clinico è caratterizzato spesso da gonfiore, rossore e da un intenso dolore alla palpazione, in alcuni casi difficilmente distinguibile da quello della torsione. Possono essere presente febbre e/o disturbi urinari quando l’epididimite è secondaria ad un’infezione urinaria. Può riguardare soggetti giovani ma anche adulti e anziani.

Il trattamento è basato sulla terapia medica antibiotica e anti-infiammatoria che può solitamente essere eseguita a domicilio. Solo in rari casi – come quando è presente febbre alta – diventa necessario il ricovero.

L’orchite acuta

E’ un’infezione che colpisce primitivamente il testicolo, in cui gli agenti patogeni arrivano di solito per via ematica. Possono essere implicati batteri ma più frequentemente l’origine è virale, come in caso di infezione da virus della parotite. In questi quadri oltre al dolore acuto è presente gonfiore del testicolo (“tumefazione”). In presenza di virus – non essendo disponibile un trattamento anti-virale – la terapia sarà solo sintomatica. E’ importante rivalutare a distanza di tempo la situazione locale, dato che in alcuni casi il quadro può successivamente evolvere in un’atrofia testicolare.

I traumi

Un quadro scrotale acuto può verificarsi in seguito ad un trauma testicolare. In questi casi è importante verificare l’integrità del testicolo ed escludere la presenza di importanti ematomi. Tranne in casi particolari in cui può essere necessario un intervento in urgenza, di solito queste situazioni tendono a guarire spontaneamente nel tempo.

I tumori del testicolo

Nella maggior parte dei casi un tumore testicolare determina la presenza di un nodulo al testicolo completamente indolore (anche durante la palpazione). Solo in casi molto rari può avvenire un evento vascolare acuto all’interno del tumore (come un’emorragia o un’ischemia) tale da provocare dolore. Può essere un dolore acuto o sub-acuto oppure anche un dolore più leggero con andamento cronico e recidivante. Una volta diagnosticata la presenza del tumore bisognerà eseguire l’intervento di asportazione del testicolo (“orchi-funicolectomia”) e gli accertamenti clinici necessari per la stadiazione della malattia.

La calcolosi ureterale

Molto spesso durante una colica renale dovuta alla presenza di un calcolo nelle vie urinarie il dolore – oltre a riguardare il fianco e la fossa iliaca – può irradiarsi alla regione inguinale e scrotale. In alcuni casi il dolore scrotale può essere predominante o addirittura l’unico sintomo: in queste situazioni il quadro clinico richiede una diagnosi differenziale con le altre cause di scroto acuto. La palpazione scrotale risulterà tuttavia normale (non determina un incremento del dolore e non permette di riscontrare gonfiore e tumefazoni). Si tratta pertanto di un quadro scrotale acuto in cui il dolore non è locale ma riflesso.

Valutazione del paziente con scroto acuto:

E’ già stato sottolineato come un quadro di dolore scrotale acuto richieda una valutazione specialistica immediata. Questo è importante per escludere la presenza di una torsione testicolare, condizione patologica in grado di portare alla perdita del testicolo se non identificata e risolta in tempi brevi.

La visita urologica con l’esame obiettivo dei genitali esterni può non essere dirimente: condizioni diverse responsabili dello scroto acuto possono determinare infatti quadri clinici molto simili.

Un esame strumentale fondamentale per valutare questi pazienti e in grado di riconoscere la causa del problema nella quasi totalità dei casi è l’ecografia scrotale con EcoDoppler. Questa indagine radiologica veloce e non invasiva permette infatti la precisa valutazione anatomica dei testicoli e degli epididimi e soprattutto la loro vascolarizzazione. In presenza di torsione testicolare la vascolarizzazione del testicolo risulta infatti assente mentre sarà al contrario incrementata in presenza di epididimiti e/o orchiti.

Dato che non tutte le unità di Pronto Soccorso hanno a disposizione 24 ore su 24 personale radiologico dedicato all’esecuzione di questo esame e dato che solo una minoranza di urologi è in grado di eseguirlo personalmente, può succedere che in situazioni di diagnosi dubbia venga deciso di eseguire comunque un intervento scrotale esplorativo in urgenza. Anche se si tratta di un intervento poco complesso e gravato da poche complicanze, in alcuni casi l’intervento può rivelarsi del tutto inutile.

Le cause del dolore testicolare cronico:

Tutti quadri patologici responsabili del dolore testicolare acuto possono anche essere responsabili di situazioni cliniche meno intense caratterizzate da dolore subacuto o in alcuni casi cronico:

- Situazioni di torsione testicolare seguita da detorsione spontanea con eventuali successive recidive (“torsione intermittente”).

- Quadri infiammatori (epididimiti o orchi-epididimiti) in cui la carica patogena è minore con conseguente dolore meno intenso e con esordio più lento.

- Tumori testicolari.

Altre cause di dolore testicolare cronico di tipo diretto possono essere:

Condizioni con accumulo di liquido all’interno dello scroto: si tratta di quadri in grado di determinare gonfiore scrotale solitamente indolore. In alcuni casi possono determinare disagi o lieve fastidi fino a situazioni di dolore comunque di bassa intensità. Tra queste situazioni rientrano:

Il varicocele: si tratta di un accumulo di sangue secondario a dilazione delle vene spermatiche in cui le valvole anti-reflusso non funzionano in modo corretto. Insorge tipicamente durante la pubertà e molto frequentemente (in più del 90% dei casi) riguarda il testicolo di sinistra. Se trascurato può causare – per motivi ancora non del tutto chiariti – problemi sulla produzione degli spermatozoi e quadri di ridotta fertilità.

L’idrocele: è un accumulo di siero che si viene a formare tra il testicolo e la fascia che lo avvolge (la “tonaca vaginale”). Può essere congenito (presente alla nascita) oppure secondario ad un’infezione epididimaria o testicolare o a un trauma. In molti casi la causa rimane sconosciuta.

Lo spermatocele: si tratta di cisti contenenti siero (o cellule spermatiche morte) localizzate nel testicolo, nell’epididimo o a livello del funicolo spermatico.

La condizione di ipermobilità testicolare: è una situazione in cui uno o entrambi i testicoli tendono a risalire verso il canale inguinale con eventuali episodi di “sub-torsione”. E’ una condizione abbastanza frequente che può predisporre alla vera torsione testicolare.

Situazioni con danno dei nervi scrotali (“fibrosi perineurale”) come complicanza di interventi chirurgici scrotali (come la vasectomia, l’idrocelectomia, l’orchiectomia, l’ectomia di cisti scrotali, ecc). Si tratta fortunatamente di complicanze molto rare della chirurgia scrotale o inguinale.

Come detto in precedenza il dolore scrotale può essere abbastanza frequentemente dovuto all’irradiazione dello stimolo doloroso verso lo scroto in presenza di patologie a carico di organi extrascrotali. In questi casi le strutture contenute nello scroto risultano perfettamente normali e indenni da qualunque problematica patologica.

Le principali cause di dolore testicolare cronico riflesso (o indiretto) sono:

La prostatite cronica e il dolore pelvico cronico: un quadro flogistico cronico che riguarda la prostata e/o la pelvi – spesso non dovuto ad una causa infettiva – in cui oltre a disturbi urinari e fastidi in regione ipogastrica e perineale possono essere presenti dolori testicolari ad andamento cronico.

Gli ascessi perianali e altre problematiche infiammatorie acute a carico della regione anale.

L’ernia del disco a livello dorso-lombare: si tratta di protrusioni del disco intervertebrale con conseguente compressione delle radici nervose lombari. Se la compressione riguarda le radici dei nervi coinvolti nell’innervazione testicolare può determinare dolore testicolare cronico.

L’ernia inguinale: è una protrusione nel canale inguinale di strutture anatomiche normalmente contenute nell’addome (come l’intestino o aree anatomiche adiacenti). A livello inguinale l’ernia può determinare la compressione di strutture nervose o vascolari di pertinenza scrotale con successiva insorgenza di dolore testicolare riflesso.

La pubalgia: rappresenta una condizione infiammatoria / irritativa dei tendini di alcuni muscoli con inserzione sull’osso pubico (in particolare il muscolo adduttore). Tra i vari disturbi che possono essere presenti nei pazienti con pubalgia (come fastidi a carico della regione addominale, inguinale e a livello della coscia) rientra anche un dolore cronico irradiato al testicolo.

Aneurismi dell’arteria iliaca comune.

Calcoli dell’uretere (come già visto in precedenza).

Il dolore testicolare cronico idiopatico:

In altre situazioni (purtroppo non così rare) il dolore testicolare cronico non ha una causa dimostrabile: in questi pazienti (spesso di giovane età) è stata infatti esclusa la presenza di tutte le situazioni patologiche responsabile di dolore scrotale cronico sia diretto che riflesso. Si parla in questi casi di dolore “idiopatico”.

La genesi di questo tipo di dolore è dovuta probabilmente ad alterazioni dell’innervazione e in particolare ad una attività anomala dei recettori del dolore (“nocicettori”). In questi soggetti sembra sia presente una ridotta soglia di attivazione dei nocicettori, in grado di iniziare la conduzione dello stimolo doloroso anche in assenza di un vero e proprio stimolo nocivo (si parla di dolore “neurogeno” o “neuropatico”). I nocicettori, a livello scrotale, si trovano localizzati soprattutto a livello del funicolo spermatico e di una struttura muscolare che circonda il testicolo, il muscolo cremastere.

Valutazione del paziente con dolore testicolare cronico:

L’inquadramento di questi pazienti deve iniziare da un’approfondita anamnesi per la corretta valutazione del dolore testicolare (entità, durata, modalità di insorgenza…) e della presenza di eventuali sintomi associati, come disturbi urinari o dolori in altre regioni anatomiche.

L’esame obiettivo non deve limitarsi ai genitali esterni ma va esteso alla prostata, alla zona inguinale, alla regione pubica e quella anale e perineale. E’ sempre opportuno eseguire un esame delle urine con urinocoltura e spermiocoltura. L’ecografia scrotale può essere utile per escludere condizioni locali potenzialmente causa del dolore. In presenza di particolare sospetto clinico si potranno richiedere ulteriori accertamenti strumentali per riconoscere un eventuale problema di ernia discale o di calcolosi urinaria.

Una volta escluse tutte le possibili cause di dolore scrotale cronico diretto e riflesso, può essere ipotizzata la presenza di un dolore idiopatico di tipo neurogeno. Per confermare la diagnosi può essere effettuata un’infiltrazione del funicolo spermatico con anestetico locale e verificare l’immediata scomparsa del dolore.

Trattamento del dolore testicolare:

La terapia più efficace per la rimozione del dolore consiste nel trattamento diretto della patologia scatenante, sia essa scrotale o extra-scrotale. Come terapia di supporto possono essere utilizzati farmaci ad azione analgesica (“terapia sintomatica”).

La terapia sintomatica è invece l’unica possibile in caso di dolore idiopatico (in cui la causa non è nota). In queste situazioni si possono utilizzare farmaci capaci di agire sul sistema nervoso e in grado di ridurre il dolore di origine neuropatica. In casi estremi si può ricorrere ad interventi di microchirugia volti a realizzare una denervazione testicolare.

Conclusioni:

Il dolore testicolare rappresenta una condizione clinica abbastanza frequente che può avere molteplici cause. Si distinguono quadri con dolore intenso ad insorgenza acuta da altri con dolore più lieve ad andamento cronico o recidivante. Il dolore testicolare acuto – o scroto acuto – richiede sempre una valutazione specialistica immediata poiché può essere causato da situazioni potenzialmente pericolose per la salute del testicolo se non risolte velocemente. Anche il paziente con dolore testicolare cronico dovrà essere sottoposto ad una completa valutazione urologica volta a riconoscere eventuali cause scrotali del dolore oppure condizioni patologiche extra-scrotali con dolore testicolare irradiato. Il trattamento deve essere ovviamente rivolto ad eliminare la causa del dolore. Una terapia di supporto sintomatica-analgesica può essere associata alla terapia causale mentre rappresenta l’unica terapia possibile in caso di dolore idiopatico neurogeno.

 

Colica renale: come riconoscerla e come comportarsi

Si dice che il dolore del parto sia fortissimo ma che si dimentichi rapidamente, lo stesso non avviene per il forte dolore provocato dalla presenza di calcoli nelle vie urinarie, la cosiddetta colica renale.

Si definisce colica renale un quadro clinico e sintomatologico caratterizzato dalla comparsa improvvisa di dolore al fianco che non concede posizioni o posture antalgiche.

Qual sono le cause della colica renale?

Generalmente è causata dalla presenza di un calcolo lungo il decorso delle vie urinarie.

Il calcolo costituisce un ostacolo al normale deflusso dell’urina ne consegue una dilatazione delle vie urinarie a monte, definita idroureteronefrosi che, se trascurata, può esitare in un danno permanente della funzionalità renale.

Non in tutti i casi la colica renale è associata a calcolosi. Neoplasie ureterali ostruttive o vescicali, compressione sull’uretere dovute alla presenza di masse solide addominali, di natura linfonodale, endometriosica o pertinenti l’apparato gastroesterico possono infatti esprimersi con coliche renali. Va da se’ che la colica renale non deve essere sottovalutata, non solo per lo stato di prostrazione e di ansia provocate dal forte dolore ma anche perché può essere il primo segnale di quadri patologici importanti.

Come distinguere la colica renale da un comune “mal di pancia”?

Il dolore della colica renale ha un andamento caratteristico detto sinusoidale cioè con fasi acute molto forti che persistono per qualche minuto alternate a momenti di parziale benessere.

Le sedi del dolore sono la regione lombare, i quadranti inferolaterali dell’addome, le aree genitale, inguinale e perineale fino alla coscia.

Perchè avviene la colica renale?

La dilatazione dell’uretere e della pelvi renale e la distensione degli strati muscolo-fasciali che li rivestono stimolano le numerose terminazioni nervose sensitive e motorie in essi contenute. Si attivano quindi stimoli dolorifici e una contrazione involontaria della pelvi renale e dell’uretere detta peristalsi che rappresenta il tentativo dell’organismo di far progredire il calcolo verso l’espulsione.

La colica può essere accompagnata da altre manifestazioni?

Spesso nausea, vomito, sudorazione, pallore cutaneo, stimolo minzionale frequente accompagnano il forte dolore della colica renale. Questi sintomi derivano dall’iperstimolazione del sistema nervoso detto simpatico che regola gran parte delle funzioni automatiche dell’organismo.

Perchè la sede del dolore è variabile?

Perchè varia in relazione alla sede del calcolo. Ad un dolore lombare corrisponde un calcolo localizzato nella pelvi renale, nel giunto pieloureterale o nel primo tratto dell’uretere. Ad una progressione del calcolo verso le porzioni più distali dell’uretere seguirà un dolore irradiato verso il basso addome, l’inguine, il perineo e l’interno coscia.

Cosa fare in caso di sospetto di colica?

La gestione, per così dire, casalinga di un dolore acuto come quello della colica renale è, oltre che difficoltosa, sconsigliabile. E’ bene recarsi quindi presso il proprio medico di famiglia o un presidio sanitario ove in genere vengono effettuati come primo provvedimento una terapia antalgica e antibiotica in caso di febbre. A seguire un percorso diagnostico che prevede: esami ematici, esame urina, ecografia addome ed eventuale TC addome.

Connotati colica

Diagnosi

Trattamenti

-Dolore improvviso

-Assenza di una posizione antalgica

-Dolore con andamento sinusodale

Calcolosi uretere

Calcolosi rene

Compressione ureterale

Displasia giunto pieloureterale

ESWL

Litotrissia endoscopica laser

Litotrissia percutanea

Laparoscopia

Calcolosi dell’uretere, quale trattamento?

Piccoli calcoli dell’uretere possono essere espulsi con una terapia farmacologica detta proespulsiva, che favorisce cioè la progressione e l’espulsione del calcolo.

Nel caso questa non avvenga in un ragionevole lasso di tempo sono indicate la litotrissia extracorporea (ESWL) oppure la litotrissia endoscopica ureterale con il laser. (URS)

Calcolosi del rene, quale trattamento?

Anche i piccoli calcoli del rene possono essere trattati con la litotrissia extracorporea oppure la litotrissia endoscopica intrarenale laser (RIRS).

Per i calcoli maggiori di 2 cm i trattamenti indicati sono la litotrissia percutanea (PNL), un intervento mininvasivo che consente di estrarre il calcolo attraverso un piccolo canale di accesso che si pratica sulla regione lombare, oppure la laparoscopia che consente di asportare calcoli di dimensioni ragguardevoli e correggere eventuali malformazioni come la displasia del giunto pieloureterale (un restringimento delle vie urinarie al confine tra rene e uretere), che possono esserne la causa.

Si può prevenire la formazione di calcoli?

Un corretto stile di vita costituito da una buona forma fisica, una idratazione sufficiente (1,5 litri di acqua al giorno), un’alimentazione che preveda uno scarso apporto di proteine e di sale sono le regole di base per evitare di trovarsi a combattere con il fastidioso problema dei calcoli urinari. Anche il succo diluito di un mezzo limone con un po’ di zucchero o con té verde, da bersi alla mattina può aiutare a prevenire la calcolosi.

Esistono farmaci che prevengono la formazione di calcoli?

Più che di farmaci si tratta di integratori che dissolvono i microaggregati che precipitando nelle urine danno luogo ai calcoli, sono a base di citrati con l’aggiunta di estratti vegetali come té verde, curcuma, fillanto e capsico, questi ultimi dotati anche di forte potere antiossidante.

Dott. Marco Garofalo
medico chirurgo specialista in Urologia - Clinica Urologica del Policlinico S.Orsola-Malpighi.

Salute maschile? Buone notizie!

Ottime notizie per la salute dei maschi.

La cura migliore per il tumore alla prostata? Impossibile dare una risposta univoca ai quasi 43mila italiani che ogni anno si trovano a dover fare i conti con questa diagnosi. «Non esiste il trattamento giusto in assoluto – e gli Urologi   riuniti  a Milano hanno presentato i risultati della seconda fase del progetto PerSTEP, Percorso Teorico Pratico in ambito uro-oncologico -. Oggi possiamo decidere, insieme al paziente, qual è la soluzione migliore nel suo caso. Nuove sinergie farmacologiche e nuovi farmaci efficaci per i casi più avanzati e, per gli stadi più iniziali, la possibilità di rinviare (magari per sempre) qualsiasi cura tenendo i pazienti “sotto sorveglianza”.
 E’ fondamentale che gli tutti uomini, davanti a una diagnosi, siano informati su tutte le opzioni a disposizione e possano valutare bene i pro e i contro di ogni scelta – La multidisciplinarietà rappresenta un approccio vincente che vede urologi, oncologi, radioterapisti e psicologi lavorare insieme nell’ottica di una migliore gestione del paziente. Alcuni studi scientifici lo hanno dimostrato e i risultati ottenuti con il progetto PerSTEP lo confermano: gli esiti sono migliori se a seguire il malato c’è un team e non un singolo specialista».

Per ogni informazione è bene rivolgersi alla Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO)

TUMORE ALLA PROSTATA

Woman holding man's underwear

 

Il carcinoma prostatico rappresenta una delle tre cause principali di morte per neoplasia dopo i 60 anni e la principale dopo i 75 anni. In America, ogni anno, vengono diagnosticati 317.000 nuovi casi di tumore della prostata mentre nei paesi della Comunità Europea circa 85.000, con una mortalità rispettivamente di 41.000 e 35.000 pazienti. Fra i Paesi sviluppati il tasso di incidenza più elevato è stato osservato in Svizzera e poi in Scandinavia; solo il Giappone presenta una bassa percentuale di tumore prostatico; il suo tasso di incidenza sarebbe infatti pari ad un decimo di quello registrato nel Nord America. Dati recenti però, probabilmente a causai dell’occidentalizzazione dello stile di vita, dimostrano come l’incidenza del carcinoma prostatico sia in rapido aumento anche in questo Paese. Le Bermuda hanno il più alto tasso di mortalità per tumore prostatico: 29 decessi per 100.000 abitanti contro i 20 decessi della popolazione USA e Scandinava. In Italia, vengono registrati 15-20 decessi per 100.000 persone. Nella provincia di Genova, nel biennio 1980-81, il tasso di mortalità è stato molto elevato, raggiungendo quasi 26 decessi per 100.000 abitanti.

Patogenesi del tumore prostatico
L’origine del tumore della prostata è ancora molto controversa e non del tutto chiarita: già da molti anni, studi epidemiologici hanno permesso di identificare vari fattori predisponenti al carcinoma prostatico. Fra questi bisogna considerare i fattori dietetici, i fattori sociali e religiosi, i fattori razziali, i fattori ambientali, i fattori ormonali.

- fattori dietetici: numerosi studi hanno riportato un’associazione tra tumore della prostata e la dieta di tipo occidentale; in particolare sono state chiamate in causa le diete ad alto contenuto calorico, ricche di grassi e proteine animali. Nessuna apparente correlazione è stata invece riscontrata con il consumo di alcolici e l’abitudine al fumo
- fattori sessuali: alcuni autori hanno osservato che i pazienti con carcinoma prostatico, probabilmente per l’elevato livello di testosterone, abbiano avuto una attività sessuale più intensa e più precoce rispetto ad altri soggetti 
Una correlazione è stata trovata anche con le malattie veneree ed in particolare con la gonorrea: questo rapporto potrebbe essere spiegato ipotizzando che la gonorrea favorisca l’impianto di qualche virus oncogeno.
- fattori sociali e religione: studi condotti in USA hanno riportato tassi più elevati di carcinoma prostatico tra i Protestanti e i Mormoni, tassi più bassi per gli Ebrei ed intermedi per i Cattolici. Nessuna differenza di incidenza del carcinoma prostatico è stata registrata tra i diversi strati sociali della popolazione.
- fattori razziali: in alcune aree degli Stati Uniti, l’incidenza del carcinoma prostatico nella popolazione di colore è circa 80 volte più elevata rispetto ai bianchi.
- fattori ambientali: la prova più convincente della loro importanza proviene da studi sulle popolazioni immigrate; alcuni importanti studi hanno dimostrato come fra gli immigrati da regioni a basso rischio in quelle ad alto rischio vi sia un aumento 
dell’incidenza di carcinoma prostatico nelle generazioni successive.
- fattore ormonale:è sicuramente quello più importante; è ormai accertato che alti livelli serici di testosterone siano da considerare come i maggiori responsabili della crescita neoplastica della prostata: è stato dimostrato infatti che la somministrazione cronica di testosterone aumenta l’incidenza del tumore (Noble 1977) e, nell’80% dei casi, è stata documentata anche una elevata sensibilità ormonale (Sica 1979). 

Diagnosi del Cancro prostatico

a) quadri clinici

Il cancro della prostata, allo stadio iniziale, è spesso asintomatico e, nella maggior parte dei casi, i pazienti sono in buone condizioni generali. Da un punto di vista clinico il tumore della prostata può essere distinto in latente, incidentale, manifesto ed occulto. Il carcinoma latente viene scoperto casualmente in corso di autopsie ma per tutta la vita non ha mai dato alcun segno di sé: si pensa che esso sia 100 volte più frequente del tumore manifesto; il carcinoma prostatico incidentale (6% circa) viene diagnosticato dopo intervento di adenomectomia o resezione della prostata (TURP) per ipertrofia prostatica benigna oppure accertato con la biopsia prostatica (pTlc); il carcinoma manifesto è sempre evidenziabile e dà luogo a manifestazioni cliniche della malattia; infine quello occulto viene svelato dalla presenza di metastasi a distanza con obiettività prostatica negativa. Solo il 20% dei pazienti richiede una visita specialistica urologica per dolore osseo, pelvico o perineale, a causa della presenza della malattia metastatica. La maggior parte dei pazienti presenta una ostruzione prostatica di grado variabile che viene distinta in tre fasi.Nella prima fase è presente soprattutto uno stadio irritativo: la prostata è discretamente aumentata di volume, e il paziente riferisce una minzione difficoltosa con mitto debole. Nella seconda fase predominano i sintomi di ostruzione: il paziente è incapace di svuotare la vescica completamente, per cui ad ogni atto minzionale si verifica una sensazione continua di stimolo urgente alla minzione; in questo stadio sono frequenti infezioni e spesso insorgono sintomi aggiuntivi come aumento delle frequenze minzionali (pollachiuria) e presenza di sangue nelle urine (ematuria). La terza fase si instaura quando il paziente presenta una ritenzione completa di urina. La diagnosi di carcinoma prostatico viene effettuata mediante l’esplorazione rettale, la determinazione serica dell’Antigene Prostatico Specifico (PSA), l’Ecografia prostatica transrettale e dalla biopsia prostatica effettuata per vie transperineale oppure transrettale.

 

b) indagini diagnostiche

Indagini di Laboratorio
Possono confermare la diagnosi clinica di carcinoma della prostata.
Attualmente il parametro più importante da considerare è il dosaggio nel siero del PSA (prostate pecific antigen) della fosfatasi alcalina e fosfatasi acida prostatica. Il PSA è un enzima (protesasi) che viene secreto quasi esclusivamente dalla prostata; il suo dosaggio plasmatico costituisce un indicatore molto affidabile della presenza del carcinoma prostatico. I valori di PSA evidenziano una buona correlazione con il volume e lo stadio del tumore. Vengono considerati normali i valori di PSA compresi tra 0 e 4 ng/ml pensando anche che vi sono casi di tumore prostatico con un PSA inferiore a 4. Benché molto sensibile, il PSA manca però di specificità poiché un aumento delle sue concentrazioni seriche può essere riscontrato anche in pazienti affetti da ipertrofia prostatica benigna o da infezioni della prostata. Comunque livelli di PSA superiori a 10ng/ml, in assenza di prostatite o di manovre endoscopiche recenti, devono sempre far sospettare il cancro della prostata. 
Secondo gli orientamenti più recenti, il PSA viene considerato un indicatore dell’attività tumorale più sensibile della scintigrafia ossea e, per questo, più affidabile per monitorare la progressione del carcinoma prostatico nei pazienti con metastasi ossee.

 

Esplorazione rettale
L’esplorazione rettale rappresenta tuttora una metodica molto sensibile nella diagnosi di neoplasia prostatica, sviluppandosi questa, nella maggior parte dei casi, nella zona periferica della ghiandola. Il tumore sarà apprezzato come un nodulo circoscritto o diffuso (a secondo dello stadio della malattia) con una consistenza maggiore rispetto al restante tessuto prostatico: bisogna però tenere presente che un’area di maggiore consistenza non è sinonimo di tumore: essa potrà essere causata anche da una calcolosi prostatica o da una infiammazione cronica della prostata. Infine il referto palpatorio, in alcuni casi, può essere anche completamente negativo come nei carcinomi incidentali, nelle forme mute o nei tumori della zona parauretrale della prostata. Da tutto ciò ne risulta che l’esplorazione rettale è una metodica dotata di alta sensibilità (80% circa) e di bassa specificità in quanto il 35% circa dei noduli biopsiati, risultano negativi all’esame istologico.

 

Ecografia prostatica transrettale

Probabilmente non rappresenta una indagine migliore dell’esplorazione rettale, ma possiede l’indubbio vantaggio di costituire un ottimo mezzo di stadiazione.
All’ecografia il tumore viene descritto per lo più come un’area ipoecogena e periferica. Attualmente l’impiego di sonde a frequenza variabile tra 7.5 e 9 Mhz ha reso molto più agevole il riscontro di aree sospette o francamente ipoecogene ele sonde sono grado di guidare l’ago bioptico nel punto della lesione ogniqualvolta si renda necessaria la biopsia prostatica transrettale.
Con l’ecografia transrettale vengono abitualmente indagate anche le vescichette seminali, la vescica e tutte le altre strutture periprostatiche.
In questi pazienti risulta anche utile una ecografia addominale e renale per escludere eventuali dilatazioni di tratti urinari

Scintigrafia ossea
La scintigrafia ossea è un esame codificato per la stadiazione del cancro prostatico, poiché le ossa sono la sede più comune di metastasi, dopo i linfonodi pelvici. Il suo limite principale è comunque la sua aspecificità: infatti, qualsiasi condizione infiammatoria, post-traumatica o maligna delle ossa darà luogo ad un’area “calda”. In questi casi, per dirimere qualsiasi dubbio è necessario eseguire una radiografia mirata della zona di ipercaptazione. 
Attualmente si ritiene che la scintigrafia ossea sia utile nella valutazione iniziale dell’estensione metastatica della malattia, mentre risulterebbe meno affidabile per il monitoraggio della risposta terapeutica o della progressione del tumore: per esempio, rispetto al dosaggio del PSA, l’esame avrebbe una inerzia che spesso conduce ad un ritardo di diagnosi di progressione di circa un anno.

Rx delle ossa

Le radiografie della colonna vertebrale e del bacino possono individuare aree di osteolisi o di osteosclerosi che indicano metastasi da carcinoma prostatico

Biopsia prostatica

La diagnosi di carcinoma prostatico deve essere sempre confermata dalla biopsia che può essere eseguita per via perineale o per via transrettale. La prima richiede l’anestesia locale o regionale e viene effettuata con l’aiuto della ecografia transrettale che è in grado di guidare la punta dell’ago bioptico nella sede della lesione.

Entrambi i tipi di biopsie sono generalmente precedute e seguite da un breve ciclo di farmaci antibatterici o antibiotici, per evitare eventuali infezioni.

In caso di lesioni agevolmente palpabili, l’agobiopsia transrettale, con ago sottile guidato dal dito o dall’ecografia prostatica, conduce quasi sempre alla dimostrazione citologica del tumore.

Dopo aver accertato la presenza del tumore prostatico, prima di procedere a qualsiasi tipo di terapia è indispensabile effettuare, attraverso gli esami finora descritti, quella che in termini tecnici viene chiamata Stadiazione del tumore

 

Inquadramento Diagnostico del pazienti con Tumore Prostatico

ESPLORAZIONE RETTALE
SCINTIGRAFIA OSSEA
PSA
RX SCLELETRO E TORACE
ECOGRAFIA PROSTATICA
ECO ADDOMINALE O
TAC TRANSRETTALE
BIOPSIA PROSTATICA (ECOGUIDATA)

 

Stadiazione
La stadiazione clinica del carcinoma prostatico è un procedimento standard impiegato da urologi e oncologi per valutare l’estensione del tumore primitivo e determinare la presenza o assenza di metastasi.
A livello internazionale, attualmente sono utilizzati due sistemi di stadiazione: Il sistema A-D (Whitmore-Jewett) è più diffuso nel Nord America e in Italia per la sua semplicità (tab 4) Lo stadio A indica il tumore non palpabile; lo Stadio B un tumore palpabile ma confinato alla ghiandola prostatica, lo stadio C un cancro esteso al di fuori della ghiandola prostatica, infiltrante la capsula o le vescichette seminali; lo stadio D indica una neoplasia metastatizzata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

<>Nella maggior parte dei Paesi i tassi di mortalità sono comunque in aumento

 

 

 

 

Stadiazione del Carcinoma Prostatico secondo L’America Urological Society (AUS)

STADIO A: Carcinoma latente o incidentale
A1: monofocale limitato ad un lobo
A2: diffuso o multifocale
STADIO B: Tumore confinato alla prostata
B1: lesione di 1,5 cm di diametro o minore, in un solo lobo
B2: lesione superiore di 1,5 cm di diametro, coinvolgente più di un lobo, ma non si estende oltre la capsula prestata
STADIO C: Estensione del tumore oltre la capsula prostatica, senza metastasi
C1: invasione della capsula prostatica e solchi laterali
C2: coinvolgimento delle vescicole seminali
C3: Invasione della vescica (Collo e Trigono) e parete del retto
STADIO D: Malattia metastatica
D1: linfonodi regionali positivi
D2: metastasi viscerali e scheletriche
D3: Ormono dipendenza

 

Il secondo sistema TNM (Tumor, Nodes,Metastases)

viene adottato di più in Europa e considera separatamente le dimensioni della neoplasia, la presenza e l’entità delle metastasi linfonodali, nonchè la presenza di metastasi a distanza

Più del 95% dei tuòori maligni della prostata sono classificati come adenocarcinomi

La classificazione della citologia viene fatta in base ad una scala da 1 a 3 (Mostofi) ed in base al grado di differenziazione cellulare:
G l = elevata differenziazione cellulare
G2= moderata differenziazione
G3= scarsa differenziazione

 

Classificazione Clinica T.N.M.

Categoria “T” - Tumore Primitivo
T0 – nessuna evidenza di tumore primitivo
T1 – tumore incidentale non evidenziabile clinicamente
T1 a- tumore presente in meno del 5% del tessuto resecato
T1 b- tumore presente in più del 5% del tessuto resecato
T1 c- biopsia positiva in pazienti con livelli di PSA elevati
T2 – tumore clinicamente manifesto limitato alla prostata
T2 a- Il tumore interessa 1/2 lobo o meno
T2 b- Il tumore interessa più di mezzo lobo o un lobo
T2 c- il tumore interesse due lobi
T3 – tumore infiltrante la capsula prostatica ed oltre
T3 a- estensione extracapsulare monolaterale
T3 b- estensione extracapsulare bilaterale
T3 c- il tumore invade le vescicole seminali
T 4 – tumore fisso o invasione di strutture limitrofe oltre le vescicole seminali
T4 a- invasione del collo vescicale e/o dello sfintere esterno e/o del retto
T4 b- invasione dei muscoli elevatori e/o tumore fisso alla Parete pelvica

 

Categoria “N” - Linfonodi regionali
N0 – linfonodi regionali indenni
N1 – metastasi in un singolo linfonodo < 2 cm
N2 – metastasi in un solo linfonodo > 2 cm < 5 cm o a più linfonodi
N3 – metastasi in un singolo linfonodo > 5 cm


Categoria “M” - Metastasi a distanza
M0 – non segni di metastasi a distanza
M1 – segni di metastasi a distanza

Follow up del paziente oncologico

Terapia del Carcinoma Prostatico

follow up del paziente oncologico

MARKERS (PSA)

ERCOGRAFIA ADDOMINALE PROSTATICA
SCINTIGRAFIA OSSEA
RX TORACE

 

A- terapia chirurgica
La terapia ottimale per il carcinoma della prostata clinicamente localizzato è ancora oggi altamente controversa. Le possibilità terapeutiche includono la chirurgia, con la prostatectomia radicale, la radioterapia e l’approccio conservativo. Storicamente i pazienti erano scoraggiati a sottoporsi alla prostatectomia radicale a causa della significativa mortalità e complicanze legate alla procedura chirurgica. Negli ultimi anni, l’abilità da parte del chirurgo e le nuove acquisizioni di anatomia chirurgica hanno consentito di effettuare l’intervento con scarse complicanze e limitate riduzioni della qualità della vita. Noi, assieme alla maggior parte degli altri autori, riteniamo che la prostatectomia radicale, inequivocabilmente, rappresenti la più efficace terapia per il tumore confinato alla prostata, in quanto permette la guarigione completa della malattia. L’intervento prevede l’asportazione completa della prostata e di tutti i linfonodi regionali (iliaci e otturatori), che spesso possono essere sede di metastasi. Dopo gli studi di Walsh, questo tipo di intervento viene eseguito secondo la tecnica “Nerve sparing” e cioè preservando quelle fibre nervose (nervi erigendi) che permettono di ottenere l’erezione. 
Le più alte sopravvivenze si ottengono nei pazienti con le seguenti caratteristiche:
- malattia confinata alla prostata (stadio A2-B; T1-T2)
- grado di differenziazione cellulare medio-basso.
- étà inferiore a 70 anni.
Al di fuori di questi criteri di selezione è incerto che la chirurgia radicale o la radioterapia consentano di ottenere la cura completa del tumore.
Già da qualche anno però la chirurgia radicale viene riservata anche agli stadi più avanzati della malattia prostatica (stadio C-D1: pT3 N0 N1); in questi casi la terapia chirurgica viene talora preceduta dalla terapia ormonale neoadiuvante allo scopo di ridurre il volume ghiandolare e la massa neoplastica. In questi casi si è visto che la terapia combinata (chirurgia + terapia ormonale) risulta efficace e garantisce risultati superiori alle singole modalità terapeutiche.
Gli effetti collaterali della prostatectomia radicali sono rappresentati dall’incontinenza urinaria e dalla impotenza; la prima è stata riscontrata in una percentuale inferiore al 5% .
La potenza sessuale viene conservata in percentuale variabile dal 35 al 70 %. Questa estrema variabilità crediamo sia determinata, oltre che da una corretta esecuzione dell’intervento nerve sparing (preservazione dei nervi crigendi), anche dall’età, dalla vascolarizzazione e dallo stato psichico che, proprio per la malattia, può essere alterato.
Oggi, a differenza del passato, quando il paziente, per motivi non del tutto ancora chiariti, non beneficia della tecnica “nerve sparing”, può risolvere il problema della potenza sessuale mediante terapie intracavernose con farmaci vasoattivi o, in ultima ipotesi, mediante l’impianto di moderne e sofisticate protesi peniene. Infine la chirurgia può essere condotta con scopi palliativi per risolvere le complicanze ostruttive (TURP)

b) Radioterapia
La radioterapia riveste sicuramente un ruolo di primo piano nel trattamento del carcinoma prostatico sia da sola che in associazione ad altre possibilità terapeutiche
Indicazioni alla radioterapia esistono sia negli stadi ad estensione locoregionale limitata che negli stadi ad estensione locoregionale avanzata o addirittura negli stadi metastatici.
Il trattamento radiante può essere utilizzato anche in associazione alla chirurgia o alla terapia medica.
La radioterapia come alternativa alla chirurgia è stata spesso oggetto di discussione, in quanto i risultati sembrano decisamente inferiori rispetto all’intervento chirurgico radicale
La Criochirurgia è una moderna terapia praticata per via percutanea, che è stata di recente sperimentata e divulgata in America con risultati tuttora da definire.

Terapia ormonale
E’ noto da tempo (Huggins e Hodges 1941) che il tessuto prostatico normale, quello ipertrofico e quello carcinomatoso rispondono alla somministrazione degli ormoni androgeni. Nel corso di questi anni la terapia medica sistemica del carcinoma prostatico è stata indirizzata alla ricerca di farmaci in grado di contrastare la stimolazione dell’ormone maschile. Il 95% del testosterone circolante e altri androgeni sono prodotti dai testicoli, mentre il surrene produce il rimanente 5%. La terapia ormonale viene utilizzata essenzialmente per trattare il tumore prostatico metastatizzato. In presenza di una malattia con metastasi ossea non trattata, con conferma alla scintigrafia ossea, la terapia ormonale è in grado di produrre un miglioramento nel 60-80% dei casi(Sogani-Fair, 1987) solo il 30-40% dei pazienti possono rivelarsi non rispondenti alla terapia endocrina

 

Trattamento endocrino

sembra migliorare la sopravvivenza globale, ma la scelta del tempo giusto del trattamento è ancora controversa: sembra comunque che una terapia ormonale precoce sia in grado di influenzare positivamente la sopravvivenza rispetto ad una terapia dilazionata o instaurata non appena compaiono i primi sintomi. L’elenco dei farmaci impiegati nella terapia del carcinoma prostatico è lunga e molto eterogenea.

Terapia del Carcinoma Prostatico in Fase Avanzata

1) Antiandrogeno per tre mesi

a) ciproterone acetato (Androcur Depot*) 1 fiala intramuscolo ogni 7 giorni

b) flutamide (Eulexin*) 1 cps x 3 al di

c) bicalutamide (casodex*) 1 cps al di

dal trentesimo giorno inizio della terapia con LHRH

2) LHRH Analoghi
a) Buserelin (SUPREFACT RETARD*) l fiala sottocute ogni due mesi
b) Goserelin (Zoladex 10,8*) 1 fiala sottocute ogni tre mesi
c) Leuprolide (Enantone Depot*) 1 fiala intramuscolo ogni mese

d) Triptorelin (Decapeptyl*) 1 fiala intramuscolo ogni mese

 

Orchiectomia bilaterale
Ha rappresentato per molti anni la terapia iniziale e più comune del carcinoma prostatico; ancora oggi, in caso di neoplasie in fase avanzata, per alcuni autori (Schroder 1991, Deins 1992), viene considerata una terapia standard. Attualmente crediamo però che, considerata l’alta possibilità di scelta di farmaci, l’intervento sia da proscrivere.

Estrogeno terapia
(Dietistilbestrolo) per molti anni ha rappresentato una alternativa alla castrazione chirurgica. Gli estrogeni, con differenti meccanismi di azione determinano un azzeramento della produzione di testosterone. Fra gli effetti collaterali degli estrogeni bisogna ricordare la depressione, l’impotenza, le vampate di calore, ginecomastia dolorosa e tossicità cardiovascolare.

Progestinici di sintesi
(Medrossiprogesterone acetato, megestrolo acetato) per le loro caratteristiche, vanno affermandosi come farmaci di seconda linea nel trattamento del carcinoma avanzato e possono essere utilizzati sia per la loro attività antitumorale, che come farmaci di supporto in quanto dotati di azione antidolorifica, stimolazione dell’appetito, miglioramento dello stato soggettivo con riduzione della stanchezza.

Antiandrogeni
Sono in grado di ridurre le concentrazioni di testosterone plasmatiche a valori che sono uguali a quelli ottenuti con la castrazione. Tra gli antiandrogeni steroidei va ricordato il ciproterone acetato. Tra gli antiandrogeni puri vanno ricordati la flutamide, la nilutamide e bicalutamide (Casodex*)
I farmaci che sicuramente hanno avuto maggiore successo nella terapia del carcinoma prostatico sono gli analoghi dell’LHRH. Tali composti sono stati introdotti in terapia agli inizi degli anni 80 ottenendo vasti consensi per gli scarsi effetti collaterali. 
La terapia medica con analoghi agonisti dell’LHRH riveste oggi un ruolo di primaria importanza nei pazienti con carcinoma prostatico disseminato per diversi motivi:
a) efficacia dell’azione terapeutica paragonabile alla castrazione chirurgica con una risposta positiva che si realizza in un’alta percentuale di pazienti nei primi due o tre mesi di terapia
b) scomparsa del dolore quando presente;
c) assenza di effetti collaterali di rilievo, se si escludono quelli legati all’azione del farmaco (abolizione della libido, deficit della potenza e dell’erezione nel 60% dei casi).Circa la metà dei pazienti lamenta comparsa di vampate di calore e sudorazione anche modeste, che possono anche scomparire nel tempo
Per prevenire alcuni effetti collaterali legati alle prime somministrazioni degli LHRH ANALOGHI agonisti è necessario far precedere questa terapia dalla somministrazione di antiandrogeni per tre mesi. Gli analoghi attualmente disponibili sono rappresentati dal Buserelin (Suprefact Retard*), Goserelin (ZOLADEX*),Leuprolide(ENANTONE Depot*), 
Triptorelin (DECA­PEPTYL *).
Gli analoghi antagonisti dell’LHRH (non ancora in commercio) esercitano la loro azione a livello recettoriale, determinando una inibizione della secrezione delle gonadotropine e quindi di testosterone. Infine gli Inibitori della biosintesi steroidea quali Aminoglutamide e Chetoconazolo, rivestono un ruolo di secondaria importanza nel trattamento del carcinoma prostatico anche per la frequenza e gli effetti collaterali. Tali farmaci sono impiegati nelle forme in progressione dopo un iniziale trattamento endocrino ed anche in associazione con analoghi allo scopo di ottenere un blocco androgenico totale.

GIORGIO CARMIGNANI – Direttore Istituto Clinica Urologica

ALDO DE ROSE – Aiuto Istituto Clinica Urologica

 

Pubblicazione del 1997

TRATTAMENTO MEDICO DELL’IMPOTENZA

La possibilità di ottenere una erezione sufficiente per un rapporto sessuale dopo l’iniezione intracavernosa di farmaci vasoattivi, oltre a modificare radicalmente l’approccio diagnostico-terapeutico dell’impotenza ha permesso una maggiore comprensione della fisiopatologia dell’erezione.
Ancora oggi però, da parte di numerosi gruppi di studi, proseguono le ricerche per identificare possibili forme di terapia orale dei deficit erettivi e risultati interesanti sono stati annunciati recentemente al congresso degli Urologi Americani: sembra infatti che una nuova molecola (Seldenafil), inibitore di un enzima (5fosfodiesterasi) sia in grado di favorire una buona erezione, dopo qualche ora dalla sua assunzione orale. Lo studio ancora in fase sperimentale in Europa ed in America, dovrebbe essere completato fra un anno e consentirne la commercializzazione fra due. Fino ad oggi i farmaci proposti per la cura dell’impotenza sono stati numerosi e, a secondo dei casi, somministrati per via sistemica (os e intramuscolo) o locale (intracavernosa, topica e intrauretrale).
La terapia, che sicuramente ha raccolto maggiori consensi è la farmacoerezione.
L’esperienza di molti anni e i risultati di studi su vaste casistiche, dimostrano inequivocabilmcnte che la farmacoerezione intracavernosa rappresenta una possibilità terapeutica di sicura efficacia con incidenza positiva anche nei confronti delle forme psicogene. E’ ormai acquisito che la farmaco infusione intracavernosa possa, in taluni casi, rappresentare una terapia a termine, svolgendo un ruolo riabilitativo di ginnastica vasoattiva sul tessuto erettivo. Il 40% di questi pazienti riferisce infatti ripresa spontanea delle erezioni dopo 6­7 iniezioni intracavernose, mentre il restante 60% continua a praticare l’autoiniezione, 10 minuti prima del rapporto sessuale: dopo 4-5 mesi (in alcuni casi anche più di un anno) un’ altra grossa percentuale, riferisce una ripresa spontanea dei rapporti sessuali. Solo il gruppo di pazienti con lesioni neurologiche, pur essendo i più responsivi a questo trattamento, per ovvie ragioni, non possono sperare in un recupero spontaneo della potenza sessuale.
Al contrario, quelli che non possono mai beneficiare di questo trattamento farmacologico locale sono i pazienti che presentano una vascolarizzazione compromessa: questi, a secondo dei casi, possono essere sottoposti ad intervento di rivascolarizzazione (ostruzione arteriosa traumatica) o impianto protesico (arteriosclerosi diffusa). I farmaci utilizzati, da soli o in associazione tra di loro, per la farmaco erezione sono rappresentati dalla papaverina-fentolamina e Prostaglandine E1 (cavelject*), che è il farmaco più adoperato nel mondo. Questi farmaci vanno usati con molta cautela e consigliati da uno specialista andrologo-urologo, endocrinologo o sessuologo dopo attenti indagini diagnostiche. Nel personalizzare la dose si procede ad aumenti graduali del dosaggio partendo dalla dose minima standard che è di 5 microgrammi, fino ad arrivare a 40 microgrammi. Rispetto alla Papaverina. la PGE1provoca una erezione più fisiologica che generalmente scompare dopo l’eiaculazione.
L’erezione persistente, dolorosa e non sostenuta da alcun stimolo sessuale, meglio conosciuta come priapismo, costituisce la complicanza più temibile della farmacoerezione per cui i pazienti devono essere sempre informati in modo da avvisare lo specialista urologo o andrologo in caso di erezione prolungata (più di sei ore dall’inizio della farmacoerezione: alcuni consigliano anche dopo tre ore). Attualmente la papaverina e la fentolamina raramente sono utilizzate da sole: più spesso, esse vengono adoperate in associazione alle prostaglandine (tab. l).

-Tab. 1-

 

Meccanismo d’azione dei farmaci impiegati per la farmacoerezione.

PGEl: partecipa alla produzione di ossido nitrico ed è un potente miorilassante della muscolatura liscia.

Papaverina: interferendo con il flusso del calcio intracellulare, inibisce la contrazione della fibra muscolare, provoca un rilasciamento diretto.

Fentolamina: bloccando i recettori alfa adrenergici induce il rilassamento della muscolatura liscia (e quindi anche l’itertono adrenergico ).

 
Terapia farmacologia per os.
Nella pratica quotidiana, esiste un gran numero di pazienti che rifiuta di essere sottoposto a farmacoerezione, perché ritiene tale metodica un trattamento cruento, non fisiologico e richiede spesso solo una terapia sintomatica di “supporto” somministrata per via orale. Tra i numerosi farmaci proposti per os quelli che hanno avuto un discreto successo sono rappresentati dal Trazodone e le Yoimbina. Il Trazodone è un inibitore della captazione di 5-HT: facilitando il turn-over della dopamina è utilizzato per via orale come antidepressivo. Studi spe­rimentali in vitro hanno evidenziato capacità all’a-antagoniste nei confronti del tessuto cavernoso e per questo capa­ce di indurre l’erezione. L’insorgenza di priapismo associato ali’ assunzione del farmaco ha accresciuto il suo interesse nel trattamento dell’ impotenza. I pochi studi effettuati al riguardo hanno però evidenziato un’efficacia limitata. La Yoimbina è sicuramente il farmaco più antico impiegato nel trattamento dell’impotenza: da più di un secolo è utilizzato come afrodisiaco. Si tratta di un alcaloide indolico con proprietà antagoniste dei recettori adrenergici alfa-2, fornito di effetti centrali profondi e periferici negli animali e negli esseri umani. Uno studio controllato su pazienti con diagnosi di impotenza psicogena ha evidenziato una risposta positiva per il 62% nel gruppo trattato con Yoimbina e del 16% nel gruppo controllo. Il farmaco è ben tollerato e può essere raccomandato come farmaco di prima scelta alla dose giornaliera di 15 mg (5mg x 3/die) (Il farmaco non è in commercio in Italia)
Differente è il discorso quando esiste un deficit ormonale per cui è necessario instaurare una terapia sostitutiva. I deficit erettivi da carenze ormonali sono quelli che risentono più favorevolmente di una terapia sostitutiva. Fortunatamente rappresentano meno del 3% di tutti i casi di impotenza.
Le anomalie ormonali più frequentemente associate a deficit erettivi sono rappresentate da ipogonadismo e dall’iperprolattinemia. Ipogonadismo: entrambe le forme (iper ed ipogonadotropo) necessitano di una terapia sostitutiva: androgeni o gonadotropine: la terapia per os è generalmente più accettata dal paziente ma spesso non è in grado di assicurare livelli ematici stabili di testosterone in quanto nessun preparato viene assorbito a livello intestinale nella precisa quantità richiesta. Proprio per questo la terapia con androgeni dovrebbe essere instaurata con preparati iniettabili (testosterone enantato 300 mg i.m. ogni 3-4 settimana.
Iperprolattinemia: può essere con seguente ad altra terapia farmacologica oppure alla presenza di tumori ipofisari prolattinomi) costituisce una causa di impotenza molto rara con incidenza stimata al disotto del 5%. Quando si rende necessaria la terapia con bromocriptina, l’inizio del trattamento deve essere sempre a basso dosaggio, per arrivare poi alle dosi di 5-7,5 mg/die. (Tab. 2).

-Tab.2-

 

Complicanze della farmacoerezione

A) A BREVE TERMINE
- dolore
- ecchimosi
- erezione prolungata
- priapismo

B) A LUNGO TERMINE
- fibrosi dei corpi cavernosi
- incurvamento del pene

 

 

Terapia topica
A causa della conformazione anatomica del pene, la terapia topica nel trattamento dell’impotenza coeundi non ha avuto molta fortuna. Infatti, una volta superata la cute, il passaggio del farmaco viene drenato nel circolo sistemico da parte della ricca rete vascolare sottocutanea. La quantità residua di farmaco che riesce a superare la fascia di Buck e la spessa tonaca albuginea raggiunge il tessuto cavernoso in quantità molto scarsa e sicuramente incapace di provocare una erezione.
I farmaci utilizzati sono stati la papaverina sotto forma di crema in veicolo liposolubile (preparazione galenica al 10%), un unguento di nitroglicerina al 2% o al 10%: la Yoimbina cloridrato come unguento al 5%)
Una solida alternativa all’uso intracavernoso di farmaci vosoattivi sembra essere rappresentata dalla somministrazione intrauretrale delle prostaglandine. Questo ultimo preparato sembra possedere un’efficacia sovrapponibile alla farmacoerezione, evitando tutti gli aspetti legativi: inoculazione cruenta e dolorosa, formazione di ematomi, cavernosità, noduli di fibrosi.

 
Aldo F. De ROSE
urologo – andrologo
pubblicazione del 1997