Ginecologia

LE ANEMIE IN CORSO DI GRAVIDANZA

In corso di gravidanza, quando al fabbisogno in ferro della madre si aggiunge il fabbisogno in ferro del feto, stati ferro­canziali non ancora clinicamente evidenti possono esplodere, specie alla fine della gravidanza, quando alla fisiologica anemia da emodiluizione (legata all’aumentato volume plasmatico da probabile iperaldosteronismo), si aggiunge la sottrazione ai depositi materni di varie centinaia di mg. di ferro necessari per il feto: ricordiamo che ogni gravidanza costa alla madre 500 mg. circa di ferro.
Ciò costituisce un decimo del patrimonio globale in ferro dell’ organismo materno e le pluripare quindi sono molto soggette alle anemie da carenza di ferro. Pertanto l’ostetrico deve lavorare a stretto contatto con l’ematologo per documentare lo stato anemico e correggerlo adeguatamente.
Sarebbe lungo discutere in breve spazio la patogenesi delle anemie da carenza di folati e/o di Vit. B 12 che possono insorgere in corso di gravidanza. C’è da sottolineare comunque che è dimostrato come i folati sierici materni vengano intrappolati nella placenta e ciò probabilmente per essere prontamente disponibili per il feto, il che ha come conseguenza una diminuita disponibilità dei folati stessi per eritropoiesi materna. Dopo il parto, con l’espulsione della pla­enta, si perdono notevoli quantità di folati e poiché le riserve di folati, a differenza delle riserve di Vit. B 12 (che assommano a circa 3000 gamma) sono estremamente esigue, può verificarsi nel post partum una anemia da carenza di folati che si manifesta con un midollo megalomacroblastico e, a livello periferico, con un’anemia macrocitica.
Altro aspetto che è necessario tener presente nella donna in gravidanza è la possibilità che la gravidanza stessa metta in evidenza uno stato anemico congenito ignorato prima della gravidanza.
Ci riferiamo in particolare allo stato betatalassemico eterozigotico che, come è noto, può passare del tutto inosservato dal punto di vista clinico in soggetti di estrazione sarda, meridionale o originari, delle regioni del Delta del Po.
In questi soggetti, in cui si possono avere normalmente valori di ematocrito intorno al 30-33% con un alto numero di globuli rossi (5-6 milioni di globuli rossi x mm3, dato il carattere microcitico ipocromico della beta talassemia), si possono, durante la gravidanza, (specie nel terzo trimestre quando fisiologicamente si ha una emodiluizione legata probabilmente all’ iperaldosteroli- smo), manifestare marcati stati anemici che, ad un accurato esame dello striscio di sangue e ad un accurato dosaggio dell’emoglobina A2, si rivelano essere legati essenzialmente alla persistenza di una notevole quantità di emoglobina A2.
E’ chiaro che in questa terza eventualità, a differenza dei due stati anemici precedentemente descritti e cioè dalla anemia da carenza di folati e/o Vit. B 12, non è necessaria alcuna terapia, poiché dopo il parto, con la riduzione dell’ eccessivo volume plasmatico, si ritornerà a valori di ematocrito “normali” per la persona affetta da beta talassemia eterozigote e quindi ben tollerabili dal soggetto stesso. Nei due primi casi invece, e cioé nella anemia da carenza di folati e/o Vit. B 12, l’ostetrico e l’ematologo dovranno concordare la terapia marziale e quella con acido folico o Vit. B 12, da eseguire in modo da riportare al più presto possibile la donna nel post-partum ad uno stato ematologico di piena normalità.
Questo anche per prevenire tutti quegli stati di pseudo esaurimenti nervosi che si verificano spesso nelle donne post par­tum e che molto spesso sono legati esclusivamente alla carenza di sostanze eritropoietiche (ferro, acido folico o Vitamina B 12) che sono indispensabili per il pieno benessere e per la piena salute della donna.

Prof. Emanuele Salvidio
Ordinario Ematologia,
Direttore della Cattedra di Ematologia
Università di Genova.
Pubblicazione Giugno 1982

UN RAPPORTO DI FIDUCIA: MEDICO-DONNA

Abbiamo fatto questa premessa per sottolineare come il progresso di una società si misuri anche e soprattutto con lo sforzo culturale compiuto dai tecnici, dagli operatori nel cercare di «concretizzare» e di «trasmettere» le conquiste” stese del progresso alla collettività. È ovvio dunque che se la Medicina cambia, deve cambiare anche: il «modo» di fare Medicina, quindi anche il tipo di rapporto tra l’operatore (il medico )ed il cittadino. ”
D’altra parte però, i mutamenti di una società non sono quasi mai traumatici ed è naturale che gli stessi rapporti interpersonali si modifichino non sempre nel modo più giusto. È così che anche il rapporto medico-paziente, in questi ultimi anni, è mutato con risultati a nostro parere un poco controversi: da un lato c’è stata senza dubbio e per diversi motivi una maggiore umanizzazione di detto rapporto; dall’altro però la confusione dei ruoli unita ad una sorta di individualismo e di scetticismo dell’uomo comune nei confronti delle cose «importanti» ha portato ad una ridotta credibilità del ruolo del medico ­specie nelle grandi città – il quale si è trovato così a pagare oggi lo scotto di errori passati.
Tutto questo nel momento in cui nella «giungla» sanitaria fatta di tickets, di ritardi, di deficienze, di cavilli burocratici, di lotte di potere ecc. più forte è il disorientamento del cittadino e corrispondentemente più forte è dunque il suo desiderio di affidare non solo il proprio corpo ma anche la propria psiche ad un medico di fiducia.
Se questo è vero per tutti, a maggior ragione è vero per la donna quando si deve rapportare col ginecologo. Ma questo non perchè la donna abbia costituzionalmente più bisogno dell’uomo di un appoggio psicologico, ma perchè in effetti nel corso della sua esistenza essa si trova a dover affrontare e superare eventi di estrema importanza quale quello di dare origine. ad una nuova vita. D’altra parte l’emergere di nuove patologie femminili unitamente ad una diversa coscienza del proprio corpo, inducono sempre più spesso la donna a rivolgersi al ginecologo per porre domande e cercare risposte.
Questo è tanto più vero, quando più diffusa è l’informazione e la divulgazione scientifica: non c’è quotidiano, rivista, servizio televisivo che non si occupi di Medicina ed in particolare di problematiche femminili.
Se ciò può essere importante come elemento di crescita culturale e di educazione sanitaria della popolazione, è anche vero che talvolta può essere causa di errate interpretazioni e può alimentare la convinzione che sia possibile gestire da soli (anche farmaco logicamente) la propria salute.
Questo sarebbe un errore gravissimo che potrebbe avere spiacevoli conseguenze che porterebbero poi inevitabilmente a richiedere l’intervento del medico.
In altri termini, quel che vogliamo dire è che la donna deve rivolgersi al medico non con un atteggiamento scioccamente fideistico, ma valutando razionalmente se le qualità umane e professionali del medico consentono di trovare una risposta ai propri problemi.
L’esempio concreto che meglio ci sembra chiarire quanto abbiamo esposto, è fornito dalla donna che affronta una gravidanza e che si rivolge al ginecologo, magari per la prima volta nella sua vita. La gravidanza è un evento estremamente impegnativo: oggi più che mai. La donna si è notevolmente emancipata in questi ultimi anni: oltre ai più tradizionali impegni familiari, ha oggi responsabilità lavorative spesso faticose, talvolta con compiti di direzione, ambizioni di carriera, necessità di spostamenti frequenti con diversi mezzi di locomozione e così via.
La gravidanza può rappresentare una limitazione, un condizionamento a tutto ciò. Se poi ci sono problemi nel corso della sua evoluzione, a questo si aggiunge la necessità di riposo forzato, di terapie durature, di controlli, di indagini diagnostiche ecc. Se dunque non si instaura un rapporto di fiducia, di rispetto (paritario, non gerarchico) tra donna e medico, si potrà arrivare ad incomprensioni, a scontri, ad ostilità, con conseguenze oltremodo negative per il prosieguo della gravidanza stessa.
Molti altri esempi si potrebbero fare per sottolineare l’importanza di un tale rapporto: la donna che decide di interrompere una gravidanza, l’adolescente che si appresta a misurarsi con la propria sessualità, la moglie afflitta da difficoltà relazionali psicologiche e fisiche col proprio marito e così via. Una condizione è però comune e va salvaguardata: un corretto e fiducioso rapporto col proprio medico. Spesso soltanto questo riesce a «guarire» situazioni dove qualsiasi farmaco fallisce.

Sandro M. Viglino
Specialista in Ginecologia
e Ostetricia
Pubblicazione Febbraio 1995

IPERTENSIONE IN GRAVIDANZA

Per prima cosa bisogna dire che spesso «ipertensione in gravidanza» equivale ad indicare una sindrome che può insorgere nella seconda metà della gravidanza stessa e che va sotto il nome di «gestosi». Quest’ultima è infatti caratterizzata, nella sua espressione clinica più completa, da 3 sintomi principali che sono: edemi (E), proteinuria (P; cioè presenza di proteine, di albumina in particolare, nelle urine), ipertensione (H). Infatti nella sua accezione più completa, la gestosi polisintomatica (cioè con tutti e tre i sintomi) viene anche indicata come EPH gestosi.
Questo spiega perché occorre distinguere tra l’ipertensione indotta dalla gravidanza e l’ipertensione precedente la gravidanza (e che può, ma non necessariamente, vedere sovrapporsi le caratteristiche cliniche della prima).
Anche per quel che riguarda la frequenza, ci sono differenze tra le due forme: infatti si calcola che l’incidenza complessiva dell’ipertensione in gravidanza si aggiri intorno al 6%, mentre le manifestazioni ipertensive che caratterizzano la EPH gestosi varino dal 3% al 5% circa (anche se secondo qualche autore l’incidenza di tutte le sue forme considerate oscillerebbe dal 3% al 13%).
Dal punto di vista della diagnosi differenziale per quanto non sempre agevole, possiamo affermare che, un elemento sufficientemente discriminante è dato dal fatto che la donna gravida che va incontro alla gestosi presenta un’anamnesi negativa per quel che riguarda l’ipertensione, è in genere una primigravida, ha un’età sotto i venti o sopra i trentacinque anni, e sviluppa una situazione ipertensiva a partire, in genere, dalla 20° settimana di gravidanza (nella donna con ipertensione precedente la gestione c’è un’anamnesi positiva, alti valori pressori possono essere rilevati prima della 20° settimana e possono persistere a tempo indefinito dopo il parto).
In caso di ipertensione in gravidanza, per il feto esiste un maggior rischio di morte endouterina, di basso peso alla nascita e di parto prematuro. D’altra parte non bisogna dimenticare che l’ipertensione in corso di gravidanza rappresenta la più frequente causa di mortalità materna nel periodo gravidico-puerperale (circa il 20% sul totale delle morti materne). La prognosi risulta particolarmente severa quando, in caso di gestosi, si passa da una situazione definita di «preeclampsia» (lieve o grave), caratterizzata da cefalea, disturbi visivi, dolore epigastrico a barra, acufeni ad una complicanza estremamente seria indicata col termine di «eclampsia o attacco eclamptico», caratterizzata da perdita di coscienza, convulsioni ed anche coma.
Per ciò che riguarda le cause ed i possibili fattori di rischio, abbiamo già detto in precedenza che permangono ancora incertezze e ipotesi discordanti. Sono stati chiamati in causa fattori costituzionali, razziali, geografici, climatici, dietetici, ma tutti, per un motivo o per l’altro, discutibili. Altri autori hanno sottolineato il ruolo svolto da processi coagulativi intravasali o da talune sostanze vasoattive come la renina e l’angiotensina. Altri ancora hanno avanzato teorie immunologiche o basate su alterazioni dell’equilibrio del tono vasale nonché dell’aggregazione piastrinica. L’ipotesi, comunque, sulla quale esiste la maggiore uniformità di opinioni è quella proposta da Page nel 1972 in base alla quale si prevede l’esistenza di un circolo vizioso patogenetico su cui intervengono, in misura e a livelli diversi, fattori predisponenti o coadiuvanti.

Profilassi e terapia
Non è certo casuale che la frequenza delle complicazioni legate alla gestosi (eclampsia convulsiva, distacco di placenta normalmente inserta, coagulazione intravascolare disseminata, apoplessia utero-placentare) si sia sensibilmente ridotta da quando la pratica di un periodico controllo clinico in corso di gravidanza si è diffusa tra la popolazione. D’altra parte un controllo medico attuato già in epoca pre-concezionale permette di indivuduare e di trattare quelle condizioni patologiche preesistenti alla gravidanza e favorenti l’insorgenza di ipertensione: tra queste ricorderemo le malattie renali (specialmente la glomerulonefrite acuta e cronica), le vasculopatie ipertensive (ivi compresa l’ipertensione essenziale), il diabete e l’obesità.
Per quel che riguarda il trattamento, va detto che esistono alcune regole generali che debbono essere scrupolosamente attuate; esse sono rappresentate da: riposo (a letto, eliminando tutti gli stimoli esterni che possono risultare fastidiosi per la paziente quali la luce ed i rumori); dieta (controllata ma senza eccessive restrizioni); controllo metabolico, idroelettrolitico e della funzione intestinale.Ricordando che in caso di preeclampsia grave la terapia migliore resta l’espletamento del parto (quando naturalmente ciò è possibile), nei casi in cui le condizioni materne lo consentano, se non vi è sofferenza fetale e quando l’epoca gestazionale è incompatibile con la maturità fetale, si può ricorrere al trattamento farmacologico. Il discorso qui potrebbe farsi molto lungo ed impegnativo, ma basterà ricordare che possiamo disporre di alcuni gruppi di farmaci (beta-bloccanti, vasodilatatori periferici come l’idralazina, simpaticolitici centrali come l’alfametildopa e la clonidina) che, se usati in modo mirato e con cautela, possono garantire una prosecuzine pressoché normale della gravidanza, almeno fino ad un’epoca in cui le possibilità di sopravvivenza del feto siano decisamente buone.

Sandro Viglino
Specialista in Ginecologia e Ostetricia
Università di Genova
Pubblicazione Febbraio 1984

ROSOLIA E TOXOPLASMOSI IN GRAVIDANZA

Bisogna inoltre aggiungere che, a seconda del periodo in cui si manifesta una qualsiasi infezione materno-fetale, si parla di:
- embriopatia infettiva quando compare nel 1° trimestre di gravidanza
- neonatopatia infettiva quando viene contratta in un periodo vicino alla nascita, ad esempio durante il travaglio di parto.
È ancora necessario premettere che ogniqualvolta di verifica una infezione intrauterina, le conseguenze che ne derivano possono essere diverse. Si può avere infatti:
- aborto
- morte endouterina del feto
- fetopatia
- neonato sano
- neonato apparentemente sano ma che avrà della manifestazioni tardive.
Naturalmente l’una o l’altra eventualità si potrà verificare in base all’esistenza di determinate variabili: epoca della gravidanza in cui l’infezione viene contratta, difese immunitarie materne, virulenza dell’agente patogeno e così via.

ROSOLIA
E’ una malattia causata da un virus (Togavirus; ma, secondo altri, potrebbe trattarsi di un Arbovirus); si tratta inoltre di una malattia endemica (vale a dire è presente tutto l’anno), epidemica (presenta cioè un picco di massima frequenza in primavera) e pandemica (ricorre cioè ogni 6-9 anni perdurando per 2-3 anni). Ha un’incubazione di circa 15-18 giorni dopodiché si manifesta con eruzione cutanea (rash rubeolico), febbre, ingrossamento dei linfonodi nucali, retrocauricolari e latero­cervicali. Questo è ciò che si verifica nel bambino o nell’adulto; naturalmente assai diverse sono le conseguenze quando la rosolia viene contratta da una donna gravida.
Infatti le manifestazioni più importanti, sul piano clinico, che contraddistinguono la rosolia congenita sono:
a) il ritardato accrescimento intrauterino del feto: questo è presente in oltre il 60% dei casi.
b) la sordità, specie dopo il primo anno di vita.
c) le cardiopatie, soprattutto su base malformativa (pervietà del dotto di Botallo, stenosi dell’arteria polmonare, stenosi della vena polmonare, ecc.)
d) le lesioni oculari (cataratta, retinite, glaucoma) presenti in un terzo dei casi.
e) anomalie cerebro-meningee e neuropsichiche ..
f) alterazioni ossee metafisarie nonché compartecipazioni renali, polmonari o pancreatiche.
Bisogna precisare che nella nostra area geografica la maggior parte delle donne (circa
l’ 80%) ha contratto la rosolia in età infantile o comunque appare essere Immunizzata nei suoi confronti. Pertanto solamente il 20% della popolazione femminile corre il rischio di contraria durante un’eventuale gravidanza. Non solo, ma ciò che è importante sottolineare è che il rischio di contrarIa varia a seconda dell’epoca di gravidanza; infatti il rischio è massimo durante il primo mese di gestazione (oltre il 50%), scende al 30-50% durante il secondo mese, è del 10-15% nel terzo mese e meno del 5% nel quarto (Fig. 1). Se ne deduce che dopo la 16a settimana il contagio transplacentare è eccezionale per cui si può anche affermare che dopo il quarto mese di gravidanza è praticamente impossibile una fetopatia rubeolica.
Discorso analogo va fatto anche per la gravità delle manifestazioni cliniche: infatti queste sono decisamente più frequenti e gravi nel primo mese di gestazione e decrescono poi in modo scalare nel secondo, terzo e quarto mese.
Per ciò che riguarda gli aspetti immunologici della rosolia, bisogna dire che le difese dell’organismo sono legate alla formazione di anticorpi quali quelli neutralizzanti, quelli fissanti il complemento e quelli emoagglutinoinibenti. Questi ultimi hanno trovato un utilissimo impiego clinico perchè è dalla loro valutazione che si può stabilire ad esempio se un soggetto è immunizzato oppure no, e, nel caso di infezione, se si tratta di una primo-infezione o di una reinfezione. Ai fini pratici, per poter considerare un soggetto protetto nei confronti della rosolia occorre che il titolo anticorpale così ottenuto sia almeno di 1:32.
Di qui l’importanza di eseguire sempre nelle bambine immediatamente prima della pubertà e nelle donne in età feconda (quando naturalmente non sia noto lo stato d’immunizzazione e quando vengano a contatto col medico) il test rosolia.
Dal punto di vista profilattico due sono le possibilità che si possono avere:
1) nel caso di giovani donne non immuni si deve far ricorso alla vaccinazione;
2) nel caso di donne non immuni gravide si deve instaurare al più presto l’immunoprofilassi passiva. Quest’ultima si basa sull’impiego di gammaglobuline specifiche al fine di evitare il contagio, limitatamente alle prime 16 settimane di gravidanza. Queste donne inoltre dovrebbero essere vaccinate subito dopo il parto.
La vaccinazione, dopo essersi naturalmente accertati di trovarsi in condizioni sicuramente extra­gravidiche, consiste invece nell’inoculo di virus vivi attenuati.
In pratica la vaccinazione va eseguita in corso di mestruazione, dopodiché si prescrive un trattamento contraccettivo per i 2-3 mesi successivi; dopo quattrosei mesi è opportuno controllare il titolo anticorpale per verificare se vi è stata una soddisfacente risposta immunitaria.

Fig. 1

 

Valutazione del rischio di contrarre la rosolia in relazione con l’epoca di gravidanza

Epoca gestionale % di rischio
- I° mese oltre 50%
-II° mese 30-50%
- III° mese 10-15%
- IV° mese meno del 15%

 

TOXOPLASMOSI
Si tratta di una parassitosi causata da un protozoo, il Toxoplasma Gondii, che è un microrganismo strettamente intracellulare. L’uomo adulto si contagia principalmente ingerendo cibi crudi o poco cotti o comunque contaminati (soprattutto carni di manzo, di maiale o di montone che contengono le cisti del parassita), oppure consumando verdure crude e mal lavate inquinate dalle cisti del Toxoplasma o infine direttamente in seguito al contatto con animali infetti (cani, conigli ma soprattutto gatti) che possano essere stati contaminati dal protozoo. Infatti le cisti del Toxoplasma possono essere conservate a livello dell’intestino del gatto e di qui diffuse nell’ambiente esterno tramite le feci. Le cisti, che sono molto resistenti, sono in grado di contaminare verdure o altri animali e quindi essere trasmesse all’uomo. Si calcola che il 50-80% dei soggetti adulti abbiano contratto la malattia (anche senza segni clinici, come accade il più delle volte) e ne risultano dunque protetti.
I problemi dunque nascono qualora ne sia affetta una donna gravida non immunizzata. La fetopatia toxoplasmosica è infatti caratterizzata da ritardato accrescimento intrauterino, manifestazioni patologiche di tipo polivisceritico (a carico soprattutto di cuore, polmoni e fegato), lesioni neuro-oculari (in questo caso può essere presente la classica tetrade: idrocefalo-corioretinite-convulsion i-calcificazioni endocraniche), ritardo mentale (negli anni successivi).
Anche per la Toxoplasmosi esiste una relazione con l’epoca di gravidanza: infatti il rischio di contrarla (che persiste per tutta la durata della gravidanza) al contrario della rosolia aumenta con l’aumentare dell’età gestazionale. Basti pensare che la possibilità di contrarre la malattia è del 20% nel l° trimestre di gravidanza, del 30% nel II° trimestre e del 50% nel III° trimestre (Fig. 2). Analogo a quello della rosolia è invece il discorso che riguarda la gravità delle manifestazioni cliniche: infatti questa diminuisce all’aumentare dell’età gestazionale. Indicando un rapporto tra forme gravi e forme lievi ad epoca di gravidanza, constatiamo che tale rapporto è di 4:1nel l° trimestre, di 1:1 nel lIo trimestre e di O:1 nel III°trimestre (Fig. 3): questo si spiega con il fatto che con l’aumenare dell’età gestazionale aumenta anche la permeabilità placentare al passaggio degli anticorpi anti-Toxoplasma.
Per quel che concerne le indagini diagnostiche, dobbiamo premettere che il tipo di esame cui viene fatto più frequentemente riferimento è il test di emoagglutinazione indiretta (Toxo-test) che utilizza globuli rossi su cui è stato fissato l’antigene toxoplasmico. Altre prove di laboratorio cui si ricorre per porre diagnosi di Toxoplasmosi sono: il test Sabin e Feldmann o Dye-test, oggi un po’ meno usato per il fatto che richiede l’impiego di toxoplasmi vivi e pertanto in parte sostituito dalla reazione di immunofluorescenza indiretta.
Mentre il Dye-test è più specifico per la dimostrazione delle IgG (le immunoglobuline – gli anticorpi cioè – che sono responsabili della immunità permanente e che compaiono a partire dalla 3a setti­mana dalla infestazione), il Toxo­test è utile per dimostrare la presenza tanto delle IgG che delle IgM (anche se forse è meno specifico del Dye-test e del test di fluorescenza indiretta). Dal momento che le IgM non attraversano la barriera placentare, Ia loro dimostrazione nel sangue del funicolo dopo il parto dimostra inevitabilmente la loro origine fetale: di qui l’importanza di alcuni tests specifici per le IgM come il test di Remington. In ogni caso sono considerati protetti i soggetti che presentano un titolo anticorpale di almeno 1:64 al Dye-test o al test di emoagglutinazione indiretta.
E’ evidente che le donne gravide che non sono protette nei confronti della Toxoplasmosi debbono essere periodicamente controllate nel corso della gravidanza ed invitate ad usare alcune precauzioni igieniche (mangiare carni ben cotte, verdura ben lavata ecc.) al fine di evitare il contagio. Nei casi in cui invece si verificasse l’infestazione durante la gravidanza, (dopo aver chiarito che si tratta di una primo-infezione) il trattamento medico consiste nel far ricorso ad un antibiotico (la spiramicina) che ha un buon tropismo placentare, raggiunge il feto e non ha effetti tossici rilevanti; in alternativa si possono fare cicli di terapia con sulfamidici unitamente a pirimetamina: è ovvio che tale terapia dovrà essere continuata per tutta la durata della gravidanza al fine di scongiurare le possibili e gravissime conseguenze dell’infezione endouterina.

Fig. 2

 

Valutazione di contrarre la toxoplasmosi in relazione con l’epoca di gravidanza

Epoca gestazionale % di ricìschio
-I° trimestre 20%
-II trimestre 30%
- III° trimestre 50%

 

Fig. 3

 

Toxoplasmosi: rapportotra forme cliniche e lievi ed epoca di gravidanza

Epoca gestionale

forme gravi : forme lievi

-I° trimestre

4 : 1

-II° trimestre

1 : 1

-III° trimestre

0 : 1

 
Dott. Sandro Viglino
Specialista in Ginecologia e Ostetricia
Università di Genova
Pubblicazione del Dicembre 1983

QUANDO UN ECCESSO DI PELI PORTA LA DONNA DAL GINECOLOGO

Bisogna intanto distinguere tra i due termini di ipertricosi e di irsutismo. L’ipertricosi consiste in un eccessivo sviluppo pilifero nelle sedi normali, senza cioè che vi sia una variazione nella caratteristica distribuzione dei peli nel sesso femminile. L’irsutismo, invece, è quella condizione nella quale i peli non solo sono eccessivi ma distribuiti in sedi dove normalmente non si riscontrano (volto, petto, linea ombelico-pubica, ecc.).
Vi sono forme di irsutismo nelle quali non è possibile dimostrare un preciso disordine ormonale: tali forme si definiscono di «irsutismo idiopatico». Si tratta di donne per lo più giovani che non hanno delle manifestazioni cliniche ben definite: talvolta si associano acne, ipersudorazione, disturbi circolatori alle estremità, alterazioni mestruali ed altri sintomi e segni aspecifici. Si ritiene che in questi casi, oltre ad una predisposizione individuale sulla base di una eredità familiare, esista un’abnorme
sensibilità del sistema pilifero agli androgeni (gli ormoni sessuali dai quali dipende principalmente lo sviluppo dei peli).
Altri tipi di irsutismo riconoscono invece precisi fattori causali. Oltre a forme di rara osservazione quali la sindrome di Achard- Thiers o «diabete delle donne barbute» (diabete, obesità, ipertensione e naturalmente irsutismo) oppure quadri morbosi legati a tumori ipofisari (adenoma ipofisario acidofilo e basofilo), le cause più frequenti di irsutismo possono essere di origine surrenalica od ovarica.
Tra le cause surrenaliche si debbono ricordare la iperplasia surrenale congenita e tardiva e i tumori surrenalici virilizzanti. Tali condizioni morbose si caratterizzano clinicamente per i segni legati alla iperattività dei surreni (ipertensione, atrofia muscolare, alterazioni cutanee, segni di virilismo: ipertrofia del clitoride, atrofia mammana, tendenza alla calvizie, modificazione del timbro della voce ecc.) e biologicamente per un aumentato tasso di testosterone plasmatico.
Sebbene anche in queste condizioni la sfera genitale venga direttamente coinvolta, esistono tuttavia delle situazioni in cui il ginecologo è chiamato a svolgere una parte di primo piano. L’ovaio secerne principalmente androstenedione ed in parte testosterone: tale produzione, che in condizioni normali è minima, in alcuni casi può aumentare enormemente. È il caso dei tumori ovarici virilizzanti (ad esempio l’arrenoblastoma) o della sindrome di Stein-Leventhal caratterizzata da un’abnorme produzione di androstenedione e soprattutto di testosterone – prodotto biologicamente più attivo – e sul piano clinico da sterilità, oligomenorrea e poi amenorrea secondaria e ovviamente da irsutismo. Anche in menopausa si osserva un certo grado di ipertricosi associata ad un diradamento o ad una caduta dei peli pubici ed ascellari: questo fenomeno, fra le varie ipotesi, potrebbe essere spiegato dal fatto che, in mancanza del freno esercitato dagli estrogeni sulla produzione di gonadotropine ipofisarie, queste ultime stimolerebbero eccessivamente le cellule ilari dell’ovaio deputate alla produzione degli androgeni ovarici.
Vi è infine un tipo di irsutismo che è andato assumendo un’importanza sempre maggiore: l’irsutismo da farmaci. Vi sono infatti delle categorie di farmaci (androgeni, anabolizzanti e progestinici) che, se somministrati in dosi eccessive o a soggetti particolarmente predisposti, possono indurre quadri di irsutismo e, se assunti in giovanisSima età, addirittura di virilizzazione.
Per quanto riguarda infine le possibilità terapeutiche, va detto che nei casi di irsutismo e virilismo sostenuti da una patologia organica surrenalica od ovarica, la terapia è ovviamente chirurgica. Nei casi di patologia funzionale la terapia può avvalersi anche di presidi farmacologici: a questo proposito è opportuno ricordare il «ciproterone», progestinico dotato di caratteristiche antiandrogene ed anche di una buona azione antigonadotropinica; inoltre associato ad un estrogeno può essere utilizzato anche a scopi contraccettivi. L’azionene dei farmaci va comunque completata con l’ausilio della depilazione elettrica o di altre forme di depilazione e della psicoterapia, nei casi in cui questa problematica situazione estetica crea gravi conflitti emotivi specie nelle pazienti più giovani.

Dott. Sandro Viglino
Ginecologo
Pubblicazione Aprile 1992

PREVENZIONE ALLA PATOLOGIA MAMMARIA

Dal punto di vista diagnostico possiamo affermare che tre sono le tappe principali su cui soffermarsi: l’esame clinico del seno che resta sempre il primo e più importante momento di diagnosi e, a parte tecniche più sofisticate che non è adesso il caso di esaminare, la mammografia (cioè l’esame radiologico al seno) e la termografia (tecnica che
sfrutta l’energia termica che ogni tessuto emana) due tecniche estremamente semplici ed innocue, indolori, e che soprattutto garantiscono una notevole sicurezza diagnostica.
La termografia in particolare permette, con dosi molto basse di radiazioni, di ottenere una mappa colorata molto precisa dell’intera regione mammaria facendo sì che quadri sospetti di patologia del seno vengano svelati al medico in epoca molto precoce il che, evidentemente, è di estrema utilità preventiva.

Termografia
Il principio fisico-chimico su cui si basa la tecnica termografica è rappresentato dai cosiddetti cristalli liquidi colesterici (C.L.C.), sostanze organiche che, nel passare dallo stato solido a quello liquido, assumono uno stadio intermedio comportandosi come liquidi dal punto di vista meccanico pur conservando alcune delle proprietà ottiche dei cristalli. L’utilizzazione medica dei C.L.C. è basata sulla comparsa e sulle modificazioni successive di molteplici risposte cromatiche (cioè di colore) ­dipendenti dalle variazioni della temperatura cutanea – che si realizzano sulla superficie del C.L.C., quando quest’ultimo sia applicato sulla cute del settore corporeo in esame.
Ciò differenzia la Termografia a contatto dalla Teletermografia basata sulla captazione a distanza delle radiazioni infrarosse emesse dalla superficie cutanea.
Ciò che contraddistingue la Termografia a contatto è la sua assoluta innocuità e semplicità di esecuzione. È evidente che occorre rispettare alcune norme affinchè la riuscita dell’esame sia ottimale; tra queste ricorderemo:
a) la scelta della fase mestruale (devono essere preferibilmente scelti i primi dieci giorni del ciclo);
b) le condizioni psicologiche della paziente (infatti una eccessiva emotività determina diffusa vasocostrizione);
c) l’acclimatazione della paziente alla temperatura ambientale (bisogna cioè che si verifichi un lieve raffreddamento dell’area cutanea mammaria).
Osservate queste semplici norme, si può sottoporre la paziente all’esame vero e proprio che prevede una prima fase (termoscopica) in cui si osserva il formarsi dell’immagine sulla placca dopo l’applicazione sulla superficie mammaria e una seconda fase (termografica) in cui si ottiene la registrazione fotografica delle immagini più esplicative.
In questo modo si possono ottenere informazioni utilissime sullo stato delle mammelle e sull’individuazione di una loro eventuale patologia. Ecco perchè la termografia, congiuntamente all’esame clinico e alla mammografia, costituisce uno dei cardini fondamentali della semeiotica mammaria.

Dr. Sandra Viglino
Ginecologo
Pubblicazione Marzo 1982 (n.1)

LO SVILUPPO DEL FETO

(cioé con l’azione del flagello, capace di muoversi con una progressione di 14-16 colpi al secondo e con la rotazione lungo l’asse principale di progressione), risalgono dal fondo vaginale con una velocità media di 2-3 mm/m’ (0,6-6 mm/m’), attraverso il canale cervicale, dopo aver superato l’acidità dell’ambiente vaginale (tamponata per circa 6-7 ore dal pH del fluido seminale) si dirigono verso l’urifizio uterino interno, ove avviene la cosidetta captazione degli spermatozoi, e nel terzo superiore delIa spalpinge incontra l’ovocita che a sua volta deve aver acquisito le caratteristiche definitive che lo rendono atto ad essere fecondato.
Dopo aver abbozzato, in linee molto generali, la via che si deve percorrere per generare una gravidanza (naturalmente, non prendiamo in considerazione la situazione femminile, cioé diamo per scontato che l’organismo femminile abbia normalmente, sia dal lato ormonale che dal lato anatomico-funzionale, generato un ovocita capace di essere fecondato) osserviamo cosa avviene quando lo spermatozoo incontra l’ovocita e lo feconda.
Avvenuta la fecondazione nella spalpinge, l’uovo procede nel suo itinere verso la cavità dell’utero e contemporaneamente va incontro ad un processo di divisione.
Dalla cellula madre si generano, per divisione, due celIule figlie poi 4, 8 e così via di seguito. Questo processo porta alIa formazione di un insieme di cellule, detto blastomero, che nel suo insieme assume un aspetto di una mora e questo stadio viene definito “morula”.
I blastomeri si tramutano alla periferia in un tessuto detto “trofoblasto”; il prodotto del concepimento a questo stadio viene definito “blastocisti o blastula”.
Tra il 7° ed il 9° giorno di sviluppo il trofoblasto si differenzia in due strati: il sincizio ed il citotrofoblasto. Successivamente verso il 9°- 10° giorno dal citotrofoblasto si differenzia il mesoblasto e questi tre strati formano assieme il cosiddetto corion. La blastocisti umana, dopo l’ 11 ° giorno si trasforma in due strati di tessuto: lo strato ectodermico e lo strato endodermico. Tra la lamina ectodermica e il corion é visibile a questo punto una piccola lacuna: é la cavità amniotica che poi aumenterà di volume. Attorno al 16° giorno tra l’endoderma ed l’ectoderma si differenzia il mesoderma che é una derivazione come invaginazione del foglietto ectodermico.
Dai tre foglietti primitivi deriveranno nel corso dell’ulteriore sviluppo i seguenti organi e tessuti;
1) (dal mesoderma): cartilagini, ossa, muscoli, tessuto connettivale, peritoneo pleure, sistema cardiovascolare, sistema urogenitale, corteccia surrenale;
2) (dall’endoderma): tratto gastrointestinale, fegato, pancreas, apparato respiratorio, tiroide, cellule germinali primitive.
3) (dall’ectoderma): cute e sue appendici, midollare surrenale, sistema nervoso, ipofisi, ghiandole salivari.
Considerando specificatamente si  può dire che alla 4a settimana di età concezionale il diametro della camera ovulare (esterno) é di 20 mm, la lunghezza dell’embrione (vertice-sacro) é di 5 mm, il peso dell’embrione é di 0,02 g.
Ad 8 settimane la camera ovulare (diametro) é di 50 mm, la lunghezza dell’embrione (sempre V­S) é di 23 mm, il peso dell’embrione é di 1 g.
A 12 settimane la lunghezza dell’embrione (V-S) é di 56 mm, il suo peso é di 14 g.
A 20 settimane la lunghezza del feto (V-S) é di 160 mm, il suo peso é di 310 g.
A 28 settimane la lunghezza del feto (vertice-tallone) é di 355 mm il suo peso é di 1080 G.
Verso la 4″ settimana di sviluppo nell’embrione é visibile l’abbozzo del cuore, dell’occhio, del proencefalo, del fegato, del rene definitivo, gli abbozzi dell’orecchio esterno, le vescicole celebrali.
Alla fine della 5a settimana si osservano sia il cordone ombelicale sia gli abbozzi degli arti superiori ed inferiori.
Alla 5a settimana il battito cardiaco embrionale può già essere evidenziato mediante apparecchi ad ultrasuoni anche se verosimilmente si può credere che le prime contrazioni cardiache avvengono già alla 4a-5a settimana.
Alla 8a settimana l’embrione mostra gli abbozzi dei muscoli, delle ossa, dei nervi, dei grossi vasi.
Alla 12a settimana si é già ben evidenziata la placenta, gli abbozzi oculari sono ricoperti dalle palpebre, le estremità presentano i primi movimenti e si ha la completa
differenziazione dei genitali esterni.
Alla 20a-21a settimana i movimenti fetali attivi sono così vivaci che possono essere avvertiti dalla gestante. Comincia a formarsi la cosiddetta vernice caseosa (che é costituita da cellule desquamate frammiste a secrezione sebacea).
Alla 28a settimana il feto raggiunge un certo grado di maturazione che, a volte, raramente, gli può permettere una sopravvivenza in caso di parto pretermine.
A questa epoca i padiglioni auricolari sono addossati dal cranio le unghie non raggiungono le estremità delle falangi quindi il feto é quasi perfettamente formato ed é simile alla immagine del neonato al momento del parto.
Questa é, a grandi linee, la meravigliosa natura della riproduzione della vita umana che nella sua complessa vicenda ci fa maggiormente comprendere quale importanza debba avere per noi la più accurata prevenzione di fatti accidentali e di incidenti nella sua gestazione.

Dott. Alessandro Masssilla
Ginecologo
Pubblicazione Maggio 1982

MAL DI TESTA E CICLO MESTRUALE

Per contro, donne abitualmente non cefalgiche possono andare incontro, in questi stessi giorni. a sintomatologia caratterizzata da sensazione di cerchio o peso alla testa o anche di dolore franco diffuso più spesso a gran parte del capo o limitato alle tempie o alla fronte.
E’ frequente il riscontro, in donne appartenenti sia al primo che al secondo gruppo, di dismenorrea cioé di mestruazioni particolarmente dolorose, facilmente accompagnate anche da irritabilità, depressione, nausea e vomito.

I FATTORI DETERMINANTI
Il trai d’ union tra la sindrome cefalgica e la sindrome premestruale o la dismenorrea é costituito da fattori ormonali. Cerchiamo qui di prenderli brevemente in esame. La normale sensibilità e tolleranza al dolore é determinata nel soggetto sano, da un giusto equilibrio tra l’azione di determinate sostanze (neuro-trasmettitori, mediatori chimici, ormoni) che combattono o modulano il dolore in varie sedi del sistema nervoso e di altre che favoriscono invece la trasmissione progressiva dello stimolo doloroso dalla
periferia del corpo all’encefalo ove viene avvertito come vera sensazione dolorosa nel dovuto contesto psicoemozionale.

LE SOSTANZE ANTI-DOLORE
Al primo gruppo appartengono le ormai famose Endorfine, vero talismano della felicità, che producono oltre all’ analgesia (analgesia= assenza di dolore) anche euforia e benessere generale; la serotonina, la dopamina, l’ormone ACTH.

 

TRASMETTITORI DEL DOLORE
Al secondo gruppo appartengono noradrenalina, sostanza P, ormoni somatotropo, prolattina ed estrogeni, istamina e bradichina.
Nelle modificazioni ormonali che determinano l’insorgere della fisiologia funzionale mestruale si ha sempre un aumento dell’increzione di estrogeni e di prolattine.
Qualora l’aumento sia eccessivo e sproporzionato come nella dismenorrea o nella sindrome premestruale o si aggiunga ad un alterato equilibrio della bilancia del dolore, come avviene nelle pazienti già sofferenti di cefalea e di emicrania, si può comprendere come possa facilmente determinare una sintomatologia iperalgica in concomitanza del periodo mestruale.

LA TERAPIA
Il miglior risultato terapeutico si ottiene con farmaci che limitano l’increzione di prolattina e stimolano quella di mediatori del sistema anti-dolore, quali la dopatmna.
Vantaggiosa può rivelarsi l’azione di preparati progestinici che riequilibrio una eventuale iper produzione di estrogeni.

 

Massimo FRANCO
Pubblicazione Aprile 1982

GRAVIDANZA: NOVE MESI DA VIVERE CONSAPEVOLMENTE

Mentre il concepimento avviene per sua natura nella massima segretezza, la gravidanza – durante l’arco dei suoi nove mesi – si esprime nella più evidente visibilità esterna: il ventre aumenta di volume e la donna percepisce sempre più la presenza di un “oggetto al suo interno”. È l’identificazione madre-figlio. Sarà questo contatto intimo che funzionerà come un invisibile cordone ombelicale che permetterà al feto prima e al neonato dopo di richiedere gratificazione ai propri bisogni.
È già un colloquio aperto quello che madre e figlio instaurano nei primi mesi di vita simbiotica. Buio e silenzio non attorniano il feto il quale sente la voce della madre, ascolta la musica, resta disturbato da una luce intensa collocata sul ventre materno e verso il quarto mese succhia piacevolmente il pollice.
Ma questa intima vita a due non si ferma alle reazioni sensoriali, investe ben presto anche la sfera affettiva: ai sentimenti della madre il feto reagisce nella misura in cui maturano i suoi circuiti neuronali. Così ansia, stress, paure della madre sono registrate dal feto perchè nel sangue materno vengono ad alterarsi determinati processi biologici.
Quindi il modo con cui si viene al mondo – cioè come la nascita sarà attesa dalla madre o con fiducia e rilassamento oppure con ansia e tensione – avrà una ripercussione sull’adulto di domani e sulle proprie capacità di viversi e di vivere il mondo attorno a sé.
Perciò alla luce di quanto accennato il desiderio di maternità non deve e non può coinvolgere solo la donna, ma deve essere sentito da entrambi i partners in quanto scelta precisa e responsabile. Spesso il desiderio di gravidanza sembra nascere in opposizione alla lucida volontà di evitarla. Tuttavia molti fattori psicologici possono condizionare sia il desiderio, sia il rifiuto della maternità e sia la sua accettazione come fatto ormai compiuto. Non a caso in certe situazioni familiari l’arrivo di un bambino è vissuto come un “buon rimedio”.
Ad essi si uniscono anche fattori sociologici che vedono nella nuova concezione della famiglia un preciso mutamento nel ruolo della donna che lavora e che trova nella sua affermazione professionale una chiara alternativa “al tema individuale della sessualità e della maternità.
Molteplici sono quindi i fattori che incidono sul desiderio di maternità definendolo un delicato momento della propria vita non certo scevro da elementi conflittuali.
Tali conflitti se non individuati e risolti per tempo possono diventare fonte di tensione psicologiche all’interno della coppia genitoriale (es. contrasto di preoccupazioni; la paura di essere “brutta” e deforme; la gravidanza come simbolo di “normalità” ecc.) possono lasciare spazio ad una sintomatologia psicosomatica in particolare della gestante (es: eccessivo vomito, eccessiva fame oppure astenia, tensioni emotive ecc.) che potrà poi mutarsi in un sentimento apertamente ambivalente nei confronti della gravidanza prima e del bambino dopo quale nuova fonte di proiezione di antichi conflitti.
Un sereno aiuto alla coppia e alla gestante: il rilassamento e il lavoro psicologico di gruppo.
Corpo e sfera psicologica più che mai in questo delicato e importante momento della vita di una coppia o di una gestante interagiscono e di questa interazione si deve tenere maggiormente conto. In più sapere e constatare che questo momento così particolare non è vissuto soltanto da una donna, soltanto da una coppia, ma può essere vissuto contemporaneamente da più donne e da più coppie può già aiutare a sentirsi meno soli per affrontare i piccoli e i più grandi problemi di una gravidanza.
Il lavoro psicologico di gruppo vede gestanti, coppie. genitoriali, donne e partners desiderosi di “maternità” incontrarsi e sedersi a cerchio l’uno accanto alI’altro per parlare insieme con più libertà in un clima accettante e psicologicamente sicuro.
Nel medesimo tempo l’attenzione invididuale centrata sul proprio corpo per aiutarlo a rilassarsi può offrire l’occasione per imparare a trarne utili vantaggi sia per la gestazione, sia per la gravidanza, sia per il parto, sia per il futuro padre che al parto vuole assistere.
Infatti numerosi fattori mentali ed emozionali accompagnano l’arco di tutta la gravidanza e del parto stesso: imparare a viverli meglio vuoI dire poter vivere con più serenità.
Così spesse volte una gravidanza può essere desiderata, può essere accettata oppure non voluta, può nascondere un forte bisogno di sentirsi fisicamente normale per simboleggiare il buon funzionamento del proprio corpo; può essere cercata come completamento della femminilità e come tale vissuta, togliendo automaticamente ma temporaneamente ogni stato depressivo; può essere il fallimento dell’uso di un metodo antifecondativo quasi per “compensare” il rapporto sessuale vissuto fino a quel momento come non fertile; il desiderio di gravidanza può essere vissuto anche come prestigio e il bambino il simbolo futuro da esibire o ancora il desiderare un bambino per una donna può essere dettato non solo da una gratificazione da soddisfare ma anche per poter inconsciamente indurre altre persone (marito, genitori, fratelli, ecc.) ad essere soddisfatte di loro.
DalI’altro lato l’apprendere a rilassare il proprio corpo “ascoltando” il proprio ritmo cardiaco, le proprie tensioni muscolari, percependo il proprio respiro tramite esercizi, può aiutare anche a superare la fatica fisiologica della gravidanza e la paura del dolore durante il parto.
Esternando quindi da un lato le più intime difficoltà; imparando nel gruppo – che è fonte di reciproca fiducia – a conoscere meglio se stesse e se stessi e lavorando dalI’altro lato sul rilassamento del proprio corpo, si può sperimentare un’immagine interiore di calma e di serenità, come scoperta di un nuovo strumento di potere personale per vivere meglio.

Elena Negri
(psicologa/conduttrice di gruppi)
Claudio Vangi
(psicologo/conduttore di gruppi)
Pubblicazione Febbraio 1985

I PROBLEMI GINECOLOGICI DELLA DONNA NON PIU’ GIOVANE

Abbiamo voluto dedicare questo spazio ad una sintetica disamina dei più comuni problemi che possono interessare la sfera genitale della donna in epoca postmenopausale o nella senilità,
Giova ricordare infatti che si definisce «postmenopausa» quel periodo della vita della donna che segue la menopausa (orientativamente cioé dopo i 55 anni) intendendo invece per «senilità» il periodo che si situa intorno ai 65 anni e che è caratterizzato dalla cessazione definitiva di una qualsiasi attività ovarica.
Non ci occupiamo qui della menopausa, essendo questo un capitolo di straordinaria importanza e vastità che richiede una trattazione a parte: faremo però riferimento ad alcuni eventi fondamentali che si verificano con la menopausa e che servono a comprendere alcune situazioni fisiopatologiche e cliniche che conseguono a quell’evento. Sappiamo che il fenomeno fondamentale che caratterizza la menopausa è l’esaurimento della attività follicolare ovarica il che significa, in altri termini, che l’ovaio va incontro ad una sorta di riposo funzionale. Questo ha due dirette conseguenze: la cessazione delle mestruazioni ed il passaggio dallo stadio riproduttivo a quello non riproduttivo. Pertanto la situazione ormonale tipica della donna ancora in età fertile, viene progressivamente ma inesorabilmente a modificarsi: la produzione ormonale ovarica (estrogeni e progesterone) va esaurendosi rapidamente, inducendo dapprima un aumento delle gonadotropine ipofisarie (FSH soprattutto e LH) in epoca postmenopausale e successivamente; nella senilità, una drastica riduzione anche di questo fenomeno.
Considerando pertanto che gli ormoni ovarici (estrogeni soprattutto) svolgono, fra l’altro, un’importante azione eutrofica sulla cute e le mucose, si comprende perché, ad esempio, sono frequenti, nella donna che ha superato l’età menopausale, fenomeni di atrofia o di distrofia a carico di tessuti come l’epitelio vaginale, del trigono vescicale e dei tessuti vascolari periuretrali aventi tutti in comune l’origine embriologica e la ricchezza di recettori ormonali per gli estrogeni.

Atrofie genito-urinarie e prolasso utero-vaginale.
È uno dei problemi che più frequentemente spingono la donna ultracinquantacinquenne dal ginecologo. I disturbi soggettivi si concretizzano in prurito vaginale, bruciore talvolta associato a leucorrea, disturbi urinari (minzione frequente diurna ma anche notturna, fastidiosa, con tendenza ad avvertire nuovamente lo stimolo una volta compiuta, talvolta senso di tensione sovrapubica). Le cause sono quelle che abbiamo prima brevemente ricordato: la carenza di estrogeni influenza il trofismo delle mucose vaginale e uretrale. La vagina, in particolare, perde la sua caratteristica elasticità e la sua mucosa diventa secca, pallida, liscia, in altri tennini atrofica. L’epitelio vaginale perde progressivamente il suo contenuto in glicogeno e diviene meno resistente alle infezioni (di qui comparsa di perdite bianche vaginali, segno di processi fIogistico-infettivi sostenuti da germi banali o da Trichomonas o da miceti).
Una conseguenza ovvia di tale situazione anatomo-funzionale è la dispareunia: la difficoltà cioé ad avere rapporti sessuali. Si tratta di un problema molto frequente e sul quale ci ripromettiamo di tornare in modo specifico in un’altra occasione. Basti dire che, indubbiamente, il modificato comportamento sessuale della donna in età postmenopausale o senile riconosce assai spesso motivazioni di carattere psicologico (per troppe donne ancora la menopausa rappresenta un evento oltremodo negativo per la propria sessualità); la comparsa però di fenomeni atrofici a carico soprattutto della vagina, rendendo dolorosi e quindi insoddisfacenti i rapporti sessuali, finisce per aggravare la situazione con riflessi inevitabilmente negativi sulla vita di coppia.
Riguardo poi ai disturbi urinari prima accennati, occorre dire che vanno qui soltanto ricordati quelli conseguenti all’alterata dinamica della minzione quale si verifica in seguito a prolasso utero-vaginale spesso associato a cistocele e incontinenza urinaria. Anche in questo caso ci limitiamo a sottolineare come anche queste manifestazioni sono la conseguenza di quel rilasciamento delle strutture pelviche (ligamenti utero-sacrali, fascia endopelvica ecc.) accelerato dai fenomeni di atrofia delle strutture di sostegno che riconoscono come primum movens la carenza estrogenica.

Perdite ematiche
Ogniqualvolta ci si trova di fronte a perdite di sangue dai genitali in donne che hanno superato l’epoca menopausale, il ginecologo deve sempre porsi in modo molto attento e preciso il problema della diagnosi differenziale. Infatti si possono configurare quadri assai diversi, per gravità e per possibilità terapeutiche, che vanno dal banale sanguinamento della mucosa vaginaIe atrofica in seguito ad un rapporto sessuale o alla semplice introduzione dello speculum durante la visita fino all’esistenza di una neoplasia endometriale. Occorre pertanto interrogare a lungo e accuratamente la paziente per cercare di scoprire la possibile causa del sanguinamento. Nel dubbio, sarà sempre opportuno consigliare alla paziente esami diagnostici più approfonditi: dallo studio della citologia uterina al curetage endouterino, all’ecografia, alla laparoscopia fino alle più recenti tecniche isteroscopiche.
Per fortuna, molte volte si tratta di sanguinamenti dovuti ad endometrite senile o a vasculopatie endometriali (specie nelle ipertese) o alla presenza di polipi uterini o all’uso di farmaci quali estrogeni o estroprogestinici somministrati in quantità eccessive. Ciò che è importante è che si riesca a porre diagnosi certa.

Patologia tumorale
Abbiamo già accennato al cancro dell’endometrio (la mucosa cioé che tappezza internamente il corpo uterino) che rappresenta il tipo di neoplasia più frequente in quest’epoca della vita.
Trattando delle distrofie vulvari abbiamo accennato al fatto che il 3-5% dei casi di lichen scleroatrofico tende a cancerizzare.
Bisogna però ricordare che, in donne di questa età, anche la patologia tumorale ovarica ha la sua importanza: la possibilità di disporre di mezzi diagnostici sempre più fini (ecografia, TAC, laparoscopia ecc.) consentono però di individuare tale patologia in stadi sempre più precoci. Meno frequenti, anche se non molto rare, sono infine le neoplasie del collo uterino.
Vorremmo concludere questo breve excursus sulle principali patologie della donna in età postmenopausale o senile, augurandoci di essere riusciti a far comprendere a chi ci ha seguito che sempre, quando si tratta della nostra salute, ciascuno di noi gioca un ruolo importante nel suo mantenimento; anche la donna non più giovane deve ricordare che un problema ginecologico magari trascurabile deve essere affrontato correttamente col medico, per far sì che eventuali provvedimenti terapeutici possano essere instaurati nei tempi e nei modi più opportuni, senza trincerarsi dietro timori o pregiudizi che non hanno più ragione di esistere.

Distrofie vulvari
Il prurito esterno, vulvare è un fastidioso disturbo che spesso porta la donna dal ginecologo: all’esame obiettivo la vulva mostra una colorazione biancastra, specie in corrispondenza delle piccole labbra che in qualche caso possono raggrinzirsi e quasi scomparire,mentre la mucosa appare ispessita. Questi quadri di craurosi vulvare possono configurare condizioni patologiche che necessitano di essere adeguatamente diagnosticate (tramite biopsia) e trattate come nel caso del “lichen scleroatrofico” che, se trascurato, nel 3-5% dei casi può esitare nel cancro vulvare. Pertanto, poiché questi stati distrofici della vulva si accompagnano quasi sempre a prurito intenso, la donna ha la possibilità di sottoporsi al controllo ginecologico e curare opportunamente e preventivamente tali condizioni.

Dott. Viglino Sandro
Specialista in Ginecologia e Ostetricia
Pubblicazione del Febbraio 1986